lunedì 19 luglio 2021
Lo storico Jeremy Popkin: «Troppo a lungo gli Usa hanno ignorato i problemi dell'isola, che hanno forti radici nel passato»
Calma tesa a Petion Ville

Calma tesa a Petion Ville - Reuters

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Non è la soluzione del dramma haitiano, almeno, però, è un primo passo. Una crisi iniziata due anni prima l’assassinio del presidente Jovenal Moïse e acuita da quest’ultimo, il 7 luglio. La lotta per il potere si è protratta per due settimane. Ad affrontarsi i “due” premier: quello uscente, Claude Joseph, e quello nominato da Moïse, Ariel Henry, il cui incarico sarebbe dovuto essere confermato il giorno del delitto. La battaglia dei due premier si è conclusa ieri quando Joseph ha accettato di dimettersi a favore del rivale, nel cui governo ricoprirà l’incarico di ministro degli Esteri. Una svolta inattesa: finora questi si era proclamato legittimo successore di Moïse. Con tutta probabilità, cruciale “l’intervento soft” di Washington.

Cresce la povertà ah Haiti

Cresce la povertà ah Haiti - Reuters

L’Amministrazione Trump aveva sostenuto Moïse nonostante le proteste per il suo crescente autoritarismo. Il successore, in un primo tempo, si è limitato ad ignorare il dossier. Di fronte all’escalatation, alla fine, gli Usa hanno fatto pressione sul presidente affinché convocasse elezioni a settembre. Il nuovo primo ministro Henry, vicino all’opposizione, avrebbe dovuto organizzarle. Dopo l’omicidio, gli Usa hanno utilizzato una strategia in due tempi. Prima hanno rassicurato Joseph, il quale ha chiesto assistenza militare per riportare la calma. Invece dei marines, tuttavia, nei giorni scorsi, è arrivata nell’isola una delegazione diplomatica che, in via riservata, ha incontrato i vari aspiranti. Ieri, l’annuncio della rinuncia di Joseph – «per il bene della nazione», ha detto in un videomessaggio registrato domenica – e dell’incarico a Herny, il quale oggi annuncerà il nuovo gabinetto. Per gli Usa e la comunità internazionale è fondamentale il voto presidenziale di settembre. Realizzarlo, però, non sarà facile con l’isola in preda a fame e caos, il 60 per cento del territorio in mano alle gang.

La soluzione negoziata apre uno spiraglio in una crisi che avrebbe potuto innescare un vero e proprio conflitto, «il cui peso aggraverebbe ulteriormente la vita di una popolazione già stremata dalla crisi cronica e dalla pandemia che si va diffondendo con maggior forza». A ventilare il rischio era stato Jeremy Popkin, docente dell’Università del Kentucky e tra i più profondi conoscitori della storia dell’isola, a cui ha dedicato il recente Haiti. Storia di una rivoluzione (Einaudi). L'esperto aveva paragonato la situazione dopo l'omicidio a quella del 1915 quando la rivolta e l'uccisione del presidente Vilbrun Guillaume Sam – l’ultimo leader assassinato prima di Jovenal Moïse ­– fu il preludio della ventennale occupazione statunitense.

Jeremy Popkin

Jeremy Popkin - Kuntucky University


Haiti è una sfida per l’Amministrazione Biden. Come agire?

Washington, in passato, si è limitata a “gestire” le emergenze haitiane in funzione delle esigenze interne, ovvero la necessità di evitare un’ondata di profughi sulle coste statunitensi o di un narco-Stato alle porte della Florida. Per il resto, ha cercato di ignorare il più possibile un’isola di cui non comprendono la storia e la cultura né i problemi. Penso che li considerino ormai un dato di fatto, impossibile da risolvere. Si tratta, però, di un’illusione. Haiti è troppo vicina perché gli Stati Uniti possano semplicemente voltarsi dall’altra parte.

Ma i problemi di Haiti sono risolvibili?

Hanno radici profonde nel passato. L’esperienza della schiavitù e il colonialismo hanno creato la convinzione che il governo e le leggi siano strumenti per proteggere i potenti. Troppo spesso, l’élite haitiana ha pensato solo a consolidare i propri privilegi senza alcuna responsabilità nei confronti della maggior parte dei cittadini. Risultato, la popolazione ha un livello di istruzione molto basso – non esiste un reale sistema scolastico pubblico – e pochi strumenti per reclamare politiche efficaci per lo sviluppo. I governi stranieri, soprattutto gli Usa, sono finora intervenuti nel proprio esclusivo interesse. Ong e volontari, pur con le migliori intenzioni, hanno spesso una loro agenda che non corrisponde necessariamente alla realtà del Paese.

Che ruolo potrebbe avere la società civile haitiana?

La creatività haitiana per sopravvivere al disastro quotidiano è impressionante. Non solo quella di intellettuali come Edwidge Danticat, Yannick Lahens, Dany Laferrière, ma anche delle persone comuni. Non so, però, se si possa parlare di una vera e propria società civile haitiana. Gruppi, movimenti e sindacati hanno difficoltà a crescere in un contesto tanto povero e i loro sforzi possono facilmente essere distrutti dalle cicliche esplosioni di violenza.


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