mercoledì 8 gennaio 2020
Dopo 10 anni la ricostruzione ancora al palo. Il commissario post-terremoto, Bill Clinton, assicurò: «Qui ricostruiremo meglio». Realizzate poche strutture con gli aiuti e le baraccopoli scoppiano
Haiti, le promesse tradite dagli aiuti esteri

Ansa

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Aveva battuto la testa. Forse era caduto in una delle tante buche che squarciano le strade impastate di rifiuti della baraccopoli di Martissant. Quando ha raggiunto il cancello verde del pronto soccorso di Medici senza frontiere (Msf), il giovane non respirava quasi più. «Non abbiamo avuto scelta: l’abbiamo intubato – racconta Adelard Shyaka, responsabile sanitario del progetto –. Siamo un centro per le urgenze, non abbiamo un ventilatore automatico. Una volta stabilizzato, dunque, avremmo dovuto trasferirlo in un ospedale più grande. Ne abbiamo chiamati quattro, tra pubblici e privati: nessuno aveva l’attrezzatura o il posto. Per 24 ore, così, ci siamo alternati per pompare l’aria manualmente. Se ci fossimo fermati, quel ragazzo sarebbe morto. Ecco qual è la situazione di Haiti». Le calamità naturali non hanno risparmiato questo frammento dell’isola di Hispaniola che, dall’arrivo di Cristoforo Colombo a Cap Haitien nel 1492, ha accumulato vari primati: la colonia più ricca di Francia, la nazione pioniera nell’abolizione della schiavitù, la prima Repubblica nera. Ora Haiti detiene altri record: è il Paese più povero d’Occidente e quello che ha vissuto una delle peggiori catastrofi della storia.

Il sisma di 7 gradi Richter del 12 gennaio 2010 ha polverizzato la capitale, Port-au-Prince, e sterminato almeno 230mila persone in un solo colpo. Eppure, a preoccupare gli haitiani, più che i capricci della natura, sono i disastri umani. Come il post-terremoto. In un decennio si è passati dalla solenne promessa di «ricostruire meglio» – quel «built back better» pronunciato da Bill Clinton, commissario speciale dell’ente per la ricostruzione, gestito da Onu, principali Stati donatori e autorità haitiane – al disinteresse più totale. Nel mezzo, ci sono stati 6,4 miliardi di dollari di aiuti stanziati dalla comunità internazionale. «Gran parte sono tornati indietro: oltre il 97% dei milionari contratti d’appalto è stata assegnata ad aziende delle nazioni donatrici. A organizzazioni e imprese locali è andato il 2,3 per cento. Il resto è semplicemente sparito», spiega Gotson Pierre, reporter e analista della piattaforma AlterPresse e AlterRadio. Qualcosa è stato fatto, certo. A Petion Ville – quartiere residenziale della capitale – è spuntato un lussuoso Marriott, simbolo del rilancio del turismo, perennemente mezzo vuoto. Il Palazzo nazionale, interamente crollato, non è stato ricostruito in omaggio alla memoria: accanto alle macerie, però, sono stati realizzati uffici per l’amministrazione. Sempre in centro, i giardini di Champs de Mars sono stati recuperati e circondati di chioschi, bistrot e bancarelle di souvenir. Gli sfollati che vi avevano trovato alloggio sono stati «riubicati». O meglio, si sono dovuti auto-ubicare.

A poco più di due mesi dal sisma, l’allora presidente René Prevail dichiarò «di pubblica utilità» cinquemila ettari di terreno nella zona di Titanyen, 18 chilometri a nord da Port- au-Prince. Canaan – come si chiama, non senza tragica ironia, questa “terra promessa tropicale” – è una zona tanto isolata che, nella seconda metà del Novecento, i dittatori François e Jean-Claude Duvalier, alias Papa e Baby Doc, vi abbandonavano i corpi martoriati degli oppositori uccisi. Le infrastrutture di base, dall’acqua ai trasporti, erano un miraggio.


Di nuovo c’è un grande albergo internazionale, sempre vuoto Canaan, il futuro quartiere per i senzatetto, è un formicaio di latta e cartone. I lavori ai padiglioni dell’Ospedale generale sono fermi da tre anni

Sarebbero arrivate presto, aveva garantito il governo nel tirare su i primi prefabbricati. Finora, però, non è accaduto. In compenso, tanti degli 1,5 milioni di senza casa per il sisma, hanno finito per invadere le colline di terra rossa. «E Canaan è diventata la più affollata baraccopoli della capitale, più grande perfino di Cité Soleil», sottolinea Pierre: le stime parlano di 300mila residenti ma potrebbero essere mezzo milione. Cinquecentomila sono pure gli alloggi mancanti a Port-au-Prince, già in emergenza abitativa prima del terremoto. Il ventilato piano di case popolari è rimasto sulla carta. I fondi della ricostruzione dovevano, soprattutto, creare un sistema sanitario pubblico efficiente in un’isola che, con un medico ogni 5mila abitanti, di fatto, ne era priva. L’edificazione di cliniche è stata tra le priorità. A partire dall’Ospedale generale – il principale centro statale haitiano –, distrutto per i tre quarti, ora ristrutturato e ampliato. I nuovi padiglioni, realizzati con il sostegno della cooperazione Usa e francese, sorgono accanto agli altri, sulla rue Saint-Honoré. Peccato che non siano operativi: tre anni fa, i lavori si sono interrotti e non sono più ripresi. I malati continuano ad essere ammassati nella parte vecchia e, come prima, devono comprarsi cibo, garze, guanti e medicine per essere curati. La donna che giace in una pozza d’acqua proprio di fronte, probabilmente, non poteva farlo.

Non sorprende in un Paese dove il 75 per cento della popolazione sopravvive con 2 dollari al giorno. Chiuso è anche l’ospedale Simbí di Martissant, dove 300mila persone non hanno altra assistenza pubblica all’infuori di dieci dispensari gestiti da infermieri, quando ci sono. E il centro di Msf, aperto nel 2006. «Ero qui allora – dice Claudia Lodesani, coordinatrice medico a Poert-au-Prince e presidente di Msf Italia –. La situazione è sempre stata al limite ma mai così». A complicare lo scenario è la crisi politica in atto dal 2017, dopo la contestata elezione del presidente Jovenel Moïse. La scintilla, però, è stata la scoperta del-l’affaire PetroCaribe, una rete di corruzione politica che avrebbe ingoiato tre miliardi di dollari di aiuti venezuelani. Anche la precedente amministrazione e quella attuale sarebbero coinvolte. Violenti proteste per chiedere la rinuncia di Moïse hanno insanguinato, a più riprese, il 2019. In autunno, il Paese s’è fermato, tra marce e barricate. E le legislative sono saltate. Da metà dicembre, improvvisamente, però, a Port-au-Prince, si respira una calma irreale. «È la quiete prima dell’uragano», dice la gente. Il 13 gennaio, il Parlamento riaprirà senza gran parte dei rappresentanti in regola: ai 119 deputati e un terzo dei senatori sarà scaduto il mandato. L’opposizione – frammentata in vari settori – giura che non consentirà a Moïse di governare per decreto.

L’uragano appunto. Già ora, comunque, lo stallo politico ha impedito l’approvazione del bilancio per due anni consecutivi. L’intera macchina amministrativa è senza budget, mentre l’inflazione galoppa e la gourde, la moneta nazionale, si svaluta. «Il sistema sanitario è al collasso. Per questo, abbiamo deciso di supportare tre dispensari a Martissant e di riprendere in mano l’ospedale tramautologico di Tabarre che avremmo voluto passare in consegna al settore pubblico», sottolinea la dottoressa Lodesani, mentre va dalla sala per le urgenze a quella di stabilizzazione. Entrambe sono affollate di malati d’asma. «Curiamo 10 casi al giorno. Non è normale », afferma il collega Javier Fernández, coordinatore del progetto di Martissant. Colpa dell’inquinamento record: poiché il municipio non smaltisce l’immondizia, le persone la bruciano per strada. O del fatto che, nelle minuscole baracche, si cucini con la carbonella. O che, semplicemente, tanti non riescano più a trovare 3 dollari ogni due settimane per l’inalatore. Dieci anni dopo, il terremoto non è finito.

(1. Continua)

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