mercoledì 8 giugno 2022
Anche la Caritas in prima fila, per sostenerli materialmente e ascoltarli. I racconti di chi si batte per gli ultimi
Una volontaria di Caritas Spes a Kiev

Una volontaria di Caritas Spes a Kiev - Capuzzi

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Maria vive a Kiev dal 12 aprile. Cinque giorni prima ha caricato in auto il marito e la figlia ed è partita in auto dalla regione di Kherson per sfuggire agli occupanti. Alle spalle si è lasciata la casa, lo studio legale e i genitori, troppo anziani per accettare di ricominciare. «Li ho sentiti l’ultima volta il 3 maggio. Poi i russi hanno tagliato ogni forma di comunicazione». Le parole di Maria si interrompono. I suoi occhi, blu profondo, si velano di lacrime.

È un attimo. Subito l’avvocata si ricompone. Non vuole farsi vedere così. Qualche minuto prima dell’apertura, fissata per le 9, c’è già la fila al centro di Caritas Spes. Donne soprattutto, giovani mamme con bimbi o anziane, ma anche uomini, provenienti da ogni angolo dell’Ucraina seppure la maggior parte ha gli intercalari russi tipici del Donbass.

Maria deve dare loro forza. Perché questa donna di una cinquantina d’anni non è una delle decine di migliaia di assistiti dall’organizzazione caritativa della Chiesa cattolica di rito latino. Maria è una volontaria, proprio come la figlia 13enne Dasha e il marito. «Ho perso il mio lavoro quando sono scappata ma qui almeno posso ugualmente rendermi utile», racconta l’avvocata addetta ora alla registrazione degli ospiti. Maria, in realtà, utilizza anche le proprie conoscenze legali per aiutarli a districarsi fra le varie pratiche burocratiche.

«Molti sono scappati senza nemmeno i documenti», aggiunge. Situato alla periferia ovest della capitale, proprio lungo l’uscita per Irpin, il "zentrum", come lo chiamano, era, fino al 24 febbraio, un laboratorio medico d’eccellenza per quanti non possono pagarsi delle visite specialistiche.

«In teoria, le cure mediche sono gratuite. Se, però, hai necessità di esami più approfonditi devi ricorrere al sistema privato. I poveri non possono permetterselo. Oltretutto nelle strutture pubbliche c’è carenza di personale: già prima della guerra, 65mila medici avevano lasciato il Paese perché ricevevano stipendi troppo bassi, meno di 400 euro», spiega Oleg, il coordinatore.

Con l’esplodere del conflitto, ai residenti più vulnerabili si sono aggiunti i profughi dell’Est e del Sud, dove infuriano i combattimenti. Le cifre dei vulnerabili sono quasi raddoppiate, passando da 250mila a 450mila. In media, 1.500 «poveri di guerra» bussano alle porte del "zentrum" della zona ovest e in quello, analogo, allestito da Caritas Spes nell’est della capitale. «Non chiedono più solo assistenza medica ma soprattutto cibo e prodotti di prima necessità», sottolinea Oleg.

La gran parte dei quasi otto milioni di rifugiati interni non sta nella capitale bensì più ad ovest. Quando c’è stata la prima ondata, all’inizio dell’offensiva, Kiev era assediata. Il flusso s’è fatto più intenso dal mese scorso. A differenza dell’Ucraina occidentale, però, nella capitale non ci sono tendopoli: la gran parte dei 300mila nuovi arrivati – tranne chi può contare su un parente – affitta un appartamento. Il governo garantisce a ogni sfollato adulto un sussidio di 3mila grivne, l’equivalente di 94 euro, un po’ meno per i bambini.

Troppo pochi per pagare la pigione – almeno 250 euro – e mantenersi. Metà della sala d’aspetto, così, è diventata una sorta di magazzino. Da una parte c’è una pila di scatole bianche con gli alimenti. Dall’altra i sacchetti con i prodotti igienici. Olena dà il proprio nominativo a Maria, in cambio ne riceve uno. Lo tiene in grembo mentre si siede in attesa della visita cardiologica.

Da quando è fuggita da Kostantinovstaya, nel Donbass, due mesi fa, soffre spesso di dolori al petto. Sente come se le mancasse il respiro. «Ho iniziato quando ho visto le bombe cadere sulla casa vicina e sulla fabbrica dove lavoravo», dice. «Tantissimi vengono da noi con problemi di questo tipo – sottolinea Bogdan, uno dei trecento medici che offrono volontariamente il proprio lavoro a Caritas spes. Vengono al "zentrum" una volta alla settimana, con turni prestabiliti in modo che l’assistenza sia sempre garantita. «Ansia, incubi, insonnia, attacchi di panico... Le chiamo "malattie di guerra". C’erano anche prima ma non con una simile intensità», dichiara.

Proprio per rispondere a questa crescente necessità, l’organizzazione realizza, ogni settimana, "tour sanitari" nei villaggi intorno alla capitale dove l’assistenza, già carente prima del conflitto, ora si è ulteriormente assottigliata. «Questa è quando siamo andati a Irpin, qui più a ovest...», dice Aleks mentre indica gli scatti sul cellulare. La 21enne è la fotografa volontaria di Caritas Spes. «Documento le attività. In realtà quando ho cominciato pensavo di dovere fare da interprete». Aleks sta terminando la facoltà di lingue: la laurea è programmata fra dieci giorni, online. «La mia università è ad Irpin ed è stata colpita da un missile», aggiunge.

Alla parola «missile», Andrei sgrana gli occhi. «Missili, solo missili», ripete. È arrivato da Mariupol il 20 febbraio. Sono stati i figli, residenti nella capitale, a convincerlo. A 60 anni e con una malattia del sistema immunitario causata dal disastro di Chernobyl non avrebbe retto. «Mariupol non c’è più. Non avrei mai pensato di morire a Kiev ma ora penso che mi toccherà. Per quelli come me non c’è ritorno. Non c’è più niente a cui tornare».

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