lunedì 27 ottobre 2014
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La tregua faticosamente raggiunta fra Israele e la Striscia dovrebbe condurre a un ragionevole percorso di pace. Ma tutti sanno che non è così scontato. Occorre fare i conti con Hamas, la costola oltranzista che si separò da Fatah e prese il sopravvento nella Striscia sfrattando con la violenza l’Autorità nazionale palestinese e disconoscendo la legittimità di Abu Mazen. Da anni Hamas controlla con pugno di ferro la società palestinese chiusa fra quelle mura che Israele le ha costruito attorno, un’enclave o una prigione, a seconda di come la si vuole intendere. Ma non stupiamoci se il più fervido guardiano della conservazione dello status quo sia proprio Hamas, che si spartisce il controllo della Striscia con gli ancor più radicali militanti della Jihad: un feudo dove detta ogni regola, dall’istruzione militare obbligatoria a 11 anni per i maschi fino alla martellante propaganda per la fecondazione in vitro, inizialmente offerta alle spose dei tremila prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane ed ora venduta a prezzi di costo a tutti, l’importante è fare figli, il maggior numero possibile. E non si tratta di un improvviso amore per la vita. Basti pensare a un’agghiacciante risposta di un dirigente di Hamas quando gli si fece notare che la guerra di luglio e agosto aveva provocato 430 vittime fra i bambini: «Però negli stessi giorni ne sono nati 516. Il saldo è positivo...», aveva risposto. Nel sud della Striscia si cerca di ricostruire strade e vie di comunicazione. Ma Hamas rifiuta di aprire cantieri sorvegliati dalle telecamere, come ha chiesto Israele: non vogliono che il loro nemico giurato scopra che stanno ricostruendo i tunnel distrutti dai raid dell’aviazione con la stella di David. «Io amo Gaza, ne vedo i limiti, anche gli orrori, ma non la lascerei mai, neanche se potessi», dice Atallah Tarazi, chirurgo dell’ospedale centrale di Gaza, originario della Grecia e soprattutto cristiano. Vive nella Striscia fin dalla giovinezza e ha conosciuto il governo di Arafat e poi il pugno di ferro di Hamas. «Ma Hamas – dice sorprendentemente – è meglio di Fatah». Hamas? Che da quando è al potere vi ha regalato tre guerre perdute? Il dottor Tarazi si alza in piedi: «Sono tutte guerre di liberazione, mio caro amico. E vale la pena di combatterle...» Nel nome di Hamas? «Nel nome di Gaza, caro!».In una centralissima piazza di Gaza City un enorme edificio giace collassato su se stesso. «Sotto c’è il tesoro di Hamas – mi spiegano – Israele ha informato i suoi dirigenti che avrebbero abbattuto il palazzone, Hamas l’ha fatto evacuare. Non ci sono stati danni collaterali. Ma sotto lì c’è una fortuna, anche se nessuno per ora si prende la briga di rimuovere migliaia di tonnellate di macerie. Per non perdere la faccia...». Il denaro, dimenticavamo. Ogni guerra, anche le cieche guerre che Hamas ripetutamente scatena, sono comunque un business. C’è il business degli aiuti internazionali e quello della ricostruzione, quello del cemento e quello delle imprese che forniscono servizi. «E qui – commenta Seth Pulaski, smaliziato analista di un think thank britannico con sede a Gerusalemme – ricomincia l’eterno braccio di ferro fra Hamas e Fatah su chi dovrà gestire gli aiuti e chi terrà i cordoni della borsa. Se va bene faranno a metà, altrimenti la ricostruzione si prolungherà all’infinito e i fondi resteranno lì, o magari andranno a finire da qualche parte».Scende la sera sulla fortezza impenetrabile di Gaza. Almeno 60 mila persone stanno stipate nelle venti scuole dell’Onu, altre quarantamila non hanno mai abbandonato la propria casa, anche se è un cumulo di macerie. Manca l’acqua potabile, manca l’elettricità, molti ospedali sono chiusi o distrutti. Parlare di ricostruzione sembra la più crudele delle bugie.  E l’inverno non è così lontano come può sembrare.
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