venerdì 15 luglio 2022
Nel villaggio di Olyva nessuno ha dubbi: è solo questione di tempo. In prossimità della frontiera, condivisa con l’ingombrante vicino, il terrore è palpabile. Ma anche la voglia di resistere
Soldati ucraini di pattuglia

Soldati ucraini di pattuglia - Ansa / Afp

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Il cartello rosso compare all’improvviso in mezzo alla foresta di betulle, su un lato della carreggiata. «Zona di confine», annuncia. Poi più in piccolo: «Controlli continui consentiti». La frontiera con la Bielorussia è a cinquanta chilometri. E da trent’anni questa è un’area cruciale per l’Ucraina. Figuriamoci dopo che da qui, da questa strada dove due auto si scambiano a malapena, sono passati i carri armati russi il 24 febbraio per arrivare fino alle porte di Kiev. E figuriamoci adesso che il Paese guidato da Alexandr Lukashenko ha ripreso le esercitazioni militari lungo il confine. «Attaccheranno. Attaccheranno», ripete l’anziano Victor seduto all’unico bar del villaggio.

Non specifica il soggetto. Ma è implicito: i vicini bielorussi. «Anche se forse non saranno loro – aggiunge Pavlo, di professione insegnante –. Lukashenko sa che un coinvolgimento nazionale lo renderebbe molto impopolare. E c’è già chi si ribella, come la guardia di frontiera che è fuggita rifiutandosi di combattere contro di noi. Più probabile che tornino le truppe russe una seconda volta. Magari camuffate da gruppi d’assalto bielorussi».

Non è una questione di se, ossia se accadrà, ma di quando. Perché l’incursione via terra dallo Stato a due passi è ritenuta sicura. Almeno dalla gente. E nella regione di Kiev che guarda verso Nord si convive con questa terribile certezza.

I tavolini del chiosco sono al crocicchio in cui comincia la via principale di Olyva. Nome che racchiude una manciata di case sparse, dove i soli punti di riferimento sono la scuola e uno spaccio. Il resto è foresta o campi. Non c’è rete per il cellulare da cinque mesi, cioè da quando i militari inviati da Putin hanno abbattuto l’unica antenna telefonica. Ma è il lascito minore. Appena si entra in paese, i resti di una fattoria dicono delle ripetute cannonate sparate da tank. Uno dei bambini ha raccontato di aver assistito dal sotterraneo, attraverso una fessura, a un raid che ha distrutto la casa di fronte.

«Da allora capita che all’improvviso si inginocchi e scoppi a piangere. Ogni volta dobbiamo aspettare che gli passi la paura», spiega Olek, psicologo con una formazione in Italia, che tutte le settimane si fa più di cento chilometri con un sacerdote salesiano per giungere fin qui e tentare una terapia contro lo stress da trauma rivolta ai ragazzi. Sull’asfalto le ruote dell’auto producono un rumore insolito. «Perché ci sono passati i carri armati», chiarisce Alina, fazzoletto sopra la testa e due piccoli per mano. Poi indica i tronchi recisi. «Bombardati anche gli alberi. Non sapendo dove si trovavano le case, i russi hanno sparato colpi a caso. È l’ennesima prova che l’obiettivo eravamo noi. Che cosa altro c’è qua se non le nostre abitazioni e i nostri terreni?». Lo sguardo si fa cupo. «Sì, saremo di nuovo attaccati. Chissà se a breve. Ma anche stavolta la nostra resistenza li caccerà».

Quel «di nuovo» richiama l’occupazione di oltre un mese che il villaggio ha subito. Come Bucha o Borodyanka, paesi che occorre attraversare per approdare a Olyva. Sono gli stessi centocinquanta chilometri percorsi dai mezzi di Mosca anche per ritirarsi dalla capitale ucraina.

«Ritirata? È stato il nostro eroico esercito a fermarli e a scompaginare i piani del Cremlino», replica Ivan. Cammina lungo la «via nera», come è stata ribattezzata a Borodyanka. Perché le case sono state colpite una ad una dalle cannonate russe. Crollate alcune; danneggiate altre. Ma tutte annerite dalle esplosioni. Poco distante il condominio diviso in due dalla follia russa.

Ha ragione il presidente Zelensky quando ha definito Borodyanka una «situazione peggiore di Bucha». A Bucha i corpi scoperti anche nelle fosse comuni sono stati 1.300; nella cittadina accanto, dove gli edifici finiti nel mirino restano molti di più, il numero non è mai stato quantificato in modo preciso. E poi chi vive qui riferisce anche che le cannonate “random” sulle case non sono avvenute solo quando le truppe russe sono entrate ma soprattutto quando ripiegavano verso la Bielorussia. «Una rappresaglia», sostiene Andriy.

Ancora le ruspe scavano. Anche vicino ai due ponti intorno a Bucha fatti saltare in aria. Sulle macerie è stata ricreata la strada. I posti di blocco, le auto della polizia agli incroci, i “titani" di cemento pronti per essere collocati sull’asfalto lasciano intendere che la battaglia di Kiev potrebbe ripetersi. Ai check point si passa con il passaporto in mano. E vengono controllati telefonini e foto scattate. «Si cercano gli infiltrati di Mosca che potrebbero essere le avanguardie di un nuovo blitz», avverte Daniil. E la mente torna al temuto confine che un esercito straniero può varcare ancora.

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