venerdì 8 novembre 2019
Dei quasi 15 milioni di tedeschi che vivevano all’Est al momento della caduta del Muro, oggi ne restano poco più di 12 milioni. E gli immigrati, che compensavano l’emorragia di tute blu, fuggono
Emergenza neonazismo a Dresda. La Germania dell'Est non riesce a guardare avanti (Ansa)

Emergenza neonazismo a Dresda. La Germania dell'Est non riesce a guardare avanti (Ansa)

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La miccia a lenta combustione che da sempre consuma i ricordi di Dresda si chiama Feuersturm, la notte di fuoco del 13 febbraio 1945 in cui la città venne rasa al suolo dai bombardieri alleati come rappresaglia – Londra la chiamò farisaicamente «Moral Bombing» – al raid della Luftwaffe che cinque anni prima aveva distrutto con un bombardamento a tappeto la cittadina di Coventry nelle West Midlands assurta (nella cultura anglosassone, per lo meno) a simbolo dell’ingiustificabile crudeltà della guerra. Oggi di Coventry se ne contano a decine, da Grozny a Aleppo, da Ramadi a Homs, ma per molti tedeschi dell’est l’anniversario che si celebrava ogni anno nella Theater Platz accanto alla macerie della Frauenkirche aveva – ed ha tuttora – un significato più profondo.

«È sostanzialmente una questione identitaria – spiega Sven Kellerhoff, collaboratore della “Welt” e del “Berliner Morgenpost” e autore del lungimirante Mein Kampf, Die Karriere eines deutschen Buches, un’indagine sulla persistenza fino ai giorni nostri delle idee nazionalsocialiste – dal momento che sono in parecchi a ritenere che il bombardamento di Dresda più che una rappresaglia fu un tentativo deliberato di distruggere l’identità tedesca».

Come scandisce a gran voce il leader della turingia Björn Höcke, uno dei fondatori di Der Flügel, la frangia più dura di Alternative für Deutschland, lo stesso che recentemente ha definito il Memoriale dell’Olocausto berlinese «un monumento alla vergogna che tradisce i veri valori germanici» e accusato apertamente «gli Allierten che hanno tentato di impossessarsi della nostra identità tedesca collettiva».

La ferita, come si intuisce, non si è mai rimarginata. E Dresda – un po’ come accade nella ricostruita Volgograd (già Stalingrado), dove ogni edificio, ogni lapide, ogni angolo di strada rammenta e celebra la resistenza e il martirio della città durante la Grande Guerra Patriottica – si attorciglia come un anaconda attorno al mito fondante della Feuersturm. Un mito che dà linfa all’estremismo e premia – com’è accaduto pochi giorni fa in Turingia, dove Afd ha letteralmente raddoppiato i consensi e superato di un punto una Cdu in caduta libera, scavalcata anche dalla Linke – il più insidioso degli avversari dei cristiano-democratici.

Ma qui siamo a Dresda, capitale del Land della Sassonia, città amatissima da Canaletto e dove Johann Sebastian Bach tenne a battesimo il rivoluzionario organo Silbermann, ma dove cinque anni fa nacque anche Pegida, provocatorio acronimo di “Patriotische Europäer gegen die Islamisierung des Abendlandes”, ovvero: Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente. Il suo fondatore Lutz Bachmann postò un autoritratto con taglio di capelli e baffi similissimi a quelli del Führer – i social network sono uno specchio a volte prezioso della stupidità umana – che lo costrinse alle dimissioni, poi prontamente rientrate.

Neonazisti, militanti di Afd e seguaci di Pegida formalmente non si parlano, come non hanno contatti ufficiali con la tifoseria hooligan della Dynamo Dresda e i militanti di Reichsbürger, i Cittadini del Reich, che non riconoscono lo Stato federale. «Però dicono e fanno le stesse cose – commenta Bruno Winkler, contabile in pensione – che dell’insorgenza neonazista ha molta paura». Ha ragione. La memoria recente di Dresda si salda con l’inquietante manifestazione dello scorso anno a Chemnitz, sempre in Sassonia (un’altra città pesantemente bombardata dagli Allierten) dove quasi un migliaio di manifestanti al grido di «Wir sind das Volk», il popolo siamo noi, diede vita a una sorta di caccia allo straniero che si concluse con il ferimento di tre cittadini extracomunitari.

Il governo della Ddr aveva lasciato la luterana Frauenkirche in macerie, così come i Lancaster, i Mosquito e i B-17 alleati l’avevano ridotta quella notte del 1945. Ricostruita all’indomani della riunificazione e riconsacrata nel 2005 dopo un lungo restauro che ne ha restituito l’abbagliante fulgore barocco, nell’ampia navata risuona oggi la «Nazinostand», l’emergenza nazista che il Consiglio comunale ha proclamato pochi giorni fa.

Ci voleva un giornalista satirico come il trentaquattrenne Max Aschenbach per proporla. Aschenbach – nomen omen, lo stesso del malinconico artista ne La morte a Venezia di Thomas Mann – milita nel Die Partei, partito di schietta intonazione goliardico-populista (notevoli le somiglianze con il movimento di Grillo degli esordi) e raccoglie il poco più del 2 per cento dei voti, che gli hanno garantito due seggi all’Europarlamento. «Dresda ha un problema, la Germania ha un problema – ha ammonito dall’alto della sua lunga barba rossa –. E questo problema è l’estremismo della destra». A favore hanno votato i Linke, la Spd, i liberali e Verdi, ma non la Cdu, che si è astenuta, considerando la proposta «mero simbolismo viziato da un errore lessicale».

Al di là dei simboli, città come Dresda, come Rostock, come Lipsia, come Halle, un tempo appartenenti ai cinque Länder della ex Ddr che con la riunificazione non hanno mai formalmente aderito alla Germania ma sono più semplicemente stati annessi come provincie della Repubblica Federale Tedesca, ha pagato un prezzo sociale molto alto. La chiusura delle fabbriche e delle industrie che un tempo facevano della Ddr il fiore all’occhiello degli Stati-satellite dell’Unione Sovietica ha provocato un progressivo svuotamento della forza-lavoro. Dei quasi 15 milioni di tedeschi che vivevano all’Est al momento della caduta del Muro di Berlino oggi ne restano poco più di 12 milioni. In gran parte sono giovani emigrati all’Ovest o all’estero, dove i salari sono più allettanti e la desertificazione sociale del tutto assente.

Risultato: aumentano gli anziani e le donne in età non più fertile e il ricambio dei giovani dà un saldo negativo. Anche gli immigrati che un tempo compensavano l’emorragia di tute blu e colletti bianchi – recita un rapporto dello Statistiches Bundesamt, l’Ufficio federale di statistica – stanno cominciando ad abbandonare le città dell’Est in cerca di condizioni migliori. «Il nostro è stato un Anschluss, una vera e propria annessione», dicono in molti. Gli effetti si sono visti subito: bassi salari, un divario crescente fra i ricchi dell’Ovest – i Besserwessi che li guardavano dall’alto in basso – e gli Ossi, i confratelli dell’est che hanno rapidamente accumulato un rancore sordo ma diffuso nei confronti di quella Germania dalla carità pelosa che di investimenti ne ha fatti ma un disegno chiaro sulle provincie riunificate non l’ha mai avuto.

La miccia a lenta combustione non accenna a spegnersi. Dietro l’orribile attentato alla sinagoga di Halle di un mese fa, dietro le ripetute minacce e intimidazioni nei confronti dei migranti c’è un trentennio di frustrazione e di odio che per taluni – come per l’autore della tentata strage di Halle, il neonazista Stephan Balliett – diventa una delirante ragione di vita. E poco importa che sia il trentennale della caduta del Muro. Non c’è un manifesto, uno striscione, un annuncio in tutta la città a ricordarlo. Prigioniera del suo passato e incarognita di fronte al suo futuro, Dresda cova i suoi fantasmi nel vento gelido che preannuncia l’inverno.

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