giovedì 7 marzo 2013
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​«Per essere come Fidel Castro, a Chávez manca la storia e gli avanza il petrolio». La definizione è stata formulata qualche anno fa dal politologo brasiliano José Sarney. E da allora ben poco è cambiato. Non solo nei confronti di Cuba. Il leader bolivariano, come un “Babbo Natale” tropicale, ha distribuito centinaia di migliaia di barili di greggio nella regione per cementare le sue relazioni latinoamericane. La diplomazia dell’oro nero ha permesso a Chávez di diventare il punto di riferimento della cosiddetta “sinistra populista” – al potere in Ecuador, Nicaragua e Bolivia – e riunita nell’Alba (Alianza bolivariana para los pueblos de América). Il Venezuela, soprattutto, è subentrato all’Urss nel ruolo di “bombola d’ossigeno” dell’agonizzante regime cubano. Dai 105mila barili di petrolio inviati ogni giorno da Caracas e venduti sottocosto, l’isola ricava il 60 per cento dell’energia consumata. Se a questo si sommano i salari degli oltre 40mila cubani – medici, infermieri, operatori – impegnati nelle missioni sociali in Venezuela, si può facilmente dire che tra il 20 e il 22 per cento del reddito dell’Avana dipende dall’alleato chavista. Il “caudillo”, però, è stato generoso anche con l’Argentina – da cui ha acquistato oltre 4 miliardi di titoli nel momento di maggior frizione col Fondo monetario –, l’Uruguay – con la recente apertura dei mercati –, Nicaragua – a cui ha garantito mezzo miliardo all’anno per la sopravvivenza del governo dell’ex sandinista Daniel Ortega –, oltre che con vari Stati centroamericani. Dosando greggio e retorica, Chávez ha in parte colmato il vuoto aperto nel Continente dal disinteresse statunitense nell’era Bush. Ora che la poltrona di Bolívar è rimasta vuota, gli equilibri regionali necessariamente cambieranno. Verso quale direzione, però, è impossibile stabilirlo. I più preoccupati sono i fratelli Castro che temono – non senza ragione – di perdere il loro puntello. Non a caso – secondo fonti ben informate – la designazione di Maduro come successore sarebbe avvenuta proprio su pressione dell’Avana. L’altro potenziale erede, Diosdado Cabello, è sempre stato inviso alla nomenclatura castrista. Un sentimento ricambiato, come dimostra l’ostinazione dell’attuale presidente del Parlamento a non recarsi in visita all’Avana, a differenza del resto dell’entourage chavista. Anche il più “morbido” Maduro – potrebbe, però, cedere alla tentazione di chiudere i rubinetti: la Pdvsa – l’ente petrolifero venezuelano – ha un debito di oltre 8 miliardi di dollari. C’è poi l’incognita di chi tra i leader radicali si aggiudicherà la guida del fronte bolivariano. Il più quotato è l’ecuadoriano Rafael Correa, reduce da un trionfo elettorale a differenza del boliviano Morales, in calo di popolarità. In campo potrebbe, però, entrare anche Enrique Peña Nieto, ansioso di rilanciare il ruolo del Messico nella regione dopo anni appiattimento dei predecessori sulle posizioni di Washington. Chiunque la spunti, comunque, difficilmente potrà contare su un’abbondanza di risorse paragonabile a quella del Venezuela chavista. Nonché sullo spregiudicato carisma del suo defunto leader, capace di mettere assieme un improbabile fronte anti-imperialista. Che si estendeva ben oltre i confini latinoamericani, fino a includere l’Iran di Ahmadinejad, la Siria di Assad, la Russia di Putin. La scomparsa del “Comandante” – con cui, al di là della retorica, Washington ha fatto ottimi affari, acquistando la metà dell’export petrolifero venezuelano – apre nuove possibilità per gli Stati Uniti di Obama nell’ex “cortile di casa”. Sempre che la Casa Bianca smetta di considerare l’America Latina come tale. La scelta del presidente Usa di non prendere posizione a favore dell’oppositore Capriles, ora, sembra andare in questa direzione. A Obama, però, resta ancora molta strada da fare riconquistare le “menti e i cuori” dei latinos.
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