mercoledì 8 luglio 2020
L’esperta: «Si confrontano due modelli di reperimento: quello gestito dalle società multinazionali e quello dell’agricoltura familiare»
Nora McKeon

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In 40 anni, fra progetti in villaggi africani e conferenze alle Nazioni Unite, Nora McKeon, ex funzionario Fao e ora docente al master in Human development dell’università Roma3, si occupa di sicurezza alimentare. Nel 2019 con Jaka Book, ha pubblicato Food governance.

Nora McKeon, la fame nel mondo aumenta a causa della pandemia. Quali le ragioni strutturali di questa incapacità di «dare il pane a tutti»?
Viviamo un contrasto tra due modi di approvvigionamento per la popolazione: da un lato un approvvigionamento globale alimentare controllato dalle grandi multinazionali con la complicità, va sempre ricordato, di governi. Un modello dominante, fonte di grande malnutrizione, ma anche di problemi per la salute, del cambiamento climatico. Dall’altra parte vi è la crescita di movimenti per l’agricoltura familiare e agroecologia e una crescente sensibilità sul mal funzionamento del sistema alimentare dominante. La pandemia ci ha rivelato le fragilità delle catene alimentari dominanti: il cibo non si muove più e, dovendo fare il giro del mondo, non giunge a destinazione. A un tratto abbiamo visto che i lavoratori agricoli impossibilitati a spostarsi da un Paese all’altro, spesso senza diritti, sono essenziali in questo sistema dominante. Intanto si è dimostrata più resiliente la produzione di cibo da agricoltura familiare e la commercializzazione su mercati territoriali rispetto al modello che ci propone cibo anonimo nei supermercati.

Quali gli aspetti negativi del modello dominante e i pregi dell’agricoltura familiare?
Va ricordato che il piccolo agricoltore è già responsabile del 70% del cibo prodotto e che l’80% dei consumatori non si avvicina mai a un supermercato. Le multinazionali controllano le regole della produzione, ma già ora chi sfama il mondo sono i contadini. Il sistema delle corporation si basa su un modello industriale: monoculture su grandi estensione, con l’estromissione dei contadini e il “land grabbing”. Si punta su tecnologie e macchine, a danno dell’ecosistema e si processa cibo ridotto a una “commodity”, una merce anonima. L’approccio della «sovranità alimentare» dei cittadini, è basato invece sulla agricoltura familiare: si cerca un prezzo remunerativo capace di sostenere la famiglia e tenere sano l’ambiente con profitti che restano sul territorio.

Dato tutto questo, come intervenire per sconfiggere la fame?
Premessa: se i lavoratori informali e i contadini ora sono i più colpiti, sono comunque loro che continuano a produrre in modo sano. Bisogna innanzitutto cambiare i paradigmi contro la narrativa dominante di un produttivismo necessario per sfamare un popolazione in continua crescita. Non è vero, di cibo ce n’è abbastanza: vi è un problema di accesso, di diseguaglianza. Già oggi sono 3 miliardi i piccoli agricoltori nel mondo, responsabili del 70% del cibo prodotto. Importante è poi svelare il prezzo reale del cibo: quello processato nei supermercati costa meno perché fa pagare tutti gli impatti negativi, sociali e ambientali, alla comunità. Se si calcolasse il vero prezzo, il cibo processato risulterebbe molto di più caro di quello agroecologico. Le persone, non gli individui consumatori, devono riappropriarsi del valore sociale, culturale, spirituale del cibo.

Ma i nostri figli vedranno un mondo senza fame?
Assolutamente sì. Se non possiamo liberare il mondo dalla fame, non possiamo nemmeno garantire un mondo in cui valga la pena di vivere.


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