martedì 16 settembre 2014
Le radici ideologiche del jihadismo che divide i musulmani
COMMENTA E CONDIVIDI
​L’imporsi dello Stato islamico sulla scena mediorientale e la feroce persecuzione messa in atto dai suoi militanti contro le minoranze non islamiche (cristiani, yazidi) e i musulmani "eretici" (sciiti e sunniti "tiepidi") ripropone con inedita drammaticità una domanda che periodicamente investe lo spazio pubblico: l’islamismo violento è un prodotto dell’islam tout court o un mostruoso accidente della storia solo strumentalmente connesso con il Corano? Un’interessante chiave di lettura del fenomeno jihadista emerge dal dibattito che l’avanzata dell’Is ha suscitato all’interno dello stesso mondo islamico. Da quando il 29 giugno è stato proclamato il Califfato non sono mancate reazioni contrarie da parte di personalità musulmane di diversa provenienza e sensibilità, in un fronte variegato che comprende tra gli altri importanti pensatori riconducibili ai Fratelli musulmani ed ideologi di al-Qaeda. Pur nella differenza di accenti, tutti contestano sia le ambizioni "califfali" dello Stato islamico, sia i suoi metodi efferati.
Tra le voci critiche hanno avuto una certa eco mediatica quelle di due importanti autorità islamiche istituzionali: il Mufti d’Egitto, Shawki Allam, e il Mufti d’Arabia Saudita Abd al-Aziz Al al-Shaykh. Allam ha dichiarato che «l’organizzazione dello Stato islamico è un pericolo per l’islam», specificando che «è un grave errore descriverla come Stato islamico perché essa contraddice tutti i valori islamici e le finalità della sharia». A queste parole, usate dal Mufti anche in una recente intervista a questo giornale, è seguita una campagna lanciata dalla Dar al-Ifta egiziana (l’istituzione, presieduta dal Mufti, preposta ad emettere fatwe) affinché nei mezzi di informazione la dicitura "Stato islamico" sia sostituita con "l’organizzazione terrorista Is". Con toni simili si è espresso il Mufti d’Arabia Saudita, secondo il quale «l’estremismo e la violenza non hanno niente a che fare con l’islam, essi sono il suo primo nemico e i musulmani le loro prime vittime».
Naturalmente è confortante sapere che molti musulmani non si riconoscono nelle idee e nelle azioni dello Stato islamico. Ma le affermazioni di una sua generica estraneità al "vero" islam rischiano di essere oggettivamente insoddisfacenti, come ha mostrato lo studioso egiziano Sherif Younis, uno dei più acuti e competenti interpreti del pensiero arabo e islamico moderno (anche se pressoché ignoto in Occidente), in due articoli pubblicati rispettivamente il 18 agosto e il 1° settembre scorsi sull’autorevole quotidiano egiziano Al-Ahram. Nel primo, intitolato "L’ideologia dello Stato islamico e il risveglio islamista", Younis scrive senza reticenze – e con una franchezza rara nel dibattito pubblico dei Paesi arabo-islamici – che «accusare organizzazioni violente come questa [lo Stato islamico] di ignorare semplicemente l’islam è una sorta di grave semplificazione, se non di connivenza. La realtà è che la violenza fa parte del risveglio islamista e si fonda sulla riattivazione di elementi tradizionali esistenti. Gli amplificatori giganteschi nelle moschee, soprattutto in quelle dei quartieri che ospitano una popolazione cristiana, il boicottaggio delle piccole botteghe di proprietà dei cristiani, l’accusa di empietà lanciata contro i pensatori liberali critici verso i discorsi o i libri islamisti, che implica l’invito a ucciderli, i tentativi reiterati di inserire il reato di apostasia nella legislazione egiziana e in generale i discorsi istigatori contro tutti i diversi, sia per religione che per idee, costituiscono negli anni gli elementi ideali che riconosciamo oggi nella pratica dello Stato islamico. E si sa che i metodi d’insegnamento di Al-Azhar [l’importante moschea-università del Cairo] usati nelle madrasse sono pieni di idee simili. L’ideologia dello Stato islamico non è altro che il coronamento del movimento di risveglio islamista dal momento che esso applica ciò che gli altri islamisti dicono». Ultima tappa di un lungo processo, il radicalismo di Is va situato secondo Younis nell’«egemonia ideologica del risveglio islamista», nata dall’incontro, nella prima metà degli anni ’60 del secolo scorso, tra le pubblicazioni takfiriste (incentrate sul takfîr, l’accusa di empietà lanciata contro i musulmani "devianti") di Sayyid Qutb e la gioventù universitaria egiziana. Ma se il "bombardamento ideologico" islamista ha una storia ormai quarantennale, le sue premesse sono precedenti. È il tema del secondo articolo di Younis, intitolato "Lo shaykh Muhammad ’Abduh e il fondamentalismo", in cui lo studioso mette in discussione una lettura consolidata del pensiero islamico moderno, individuando nella riflessione del riformista egiziano ’Abduh (morto nel 1905) la radice dei problemi dell’islam contemporaneo e non, come molti sostengono, la loro soluzione. Secondo le interpretazioni più diffuse anche in Occidente, il movimento di riforma dell’islam che prende avvio alla fine del XIX secolo si sviluppa in due fasi: la prima, progressiva e illuminata, inizia con ’Abduh e culmina nel grande intellettuale liberale Taha Husayn; la seconda, regressiva e oscurantista, parte dal fondatore dei Fratelli musulmani Hasan al Banna e sfocia nell’islamismo violento.
Younis contesta tale lettura collocando ’Abduh all’origine di entrambe le traiettorie. ’Abduh non sarebbe il responsabile diretto della nascita del fondamentalismo, ma ne avrebbe creato i presupposti teorici attraverso la combinazione di un duplice meccanismo: il superamento delle differenze (storicamente ammesse) tra le diverse scuole giuridiche sunnite a favore di un’interpretazione unitaria ed esclusiva dell’islam, e il ritorno alle origini come strada per il rinnovamento non solo religioso ma anche sociale e politico. Utilizzati da ’Abduh in senso modernista (sono note le aperture del pensatore egiziano su temi come i diritti delle donne o l’attività economica), questi due assi avrebbero preparato il terreno alla mitizzazione e all’assolutizzazione ideologica dell’unità – intesa come omogeneità – dell’islam, e dell’esperienza delle prime generazioni di musulmani. In questo modo lo sviluppo dell’islamismo non sarebbe solo la perversione accidentale di un percorso virtuoso inaugurato dall’islam liberale, ma l’esito necessario dell’impostazione con cui i pensatori musulmani hanno tematizzato il complesso rapporto tra islam e modernità.
Per capire, al di là degli aspetti più specialistici, i termini della questione, si può paragonare tale dibattito a quello che a partire dagli anni ’40 ebbe luogo in Italia intorno all’interpretazione del fascismo. Per Croce il fascismo era il frutto di una crisi culturale momentanea, una "parentesi" irrazionale nello sviluppo razionale della storia europea. Secondo Del Noce, che riprendeva le idee di Noventa, esso non rappresentava "un errore contro la cultura", ma un "errore della cultura", e solo questa prospettiva avrebbe impedito la nascita di nuovi fascismi. È bene che i pensatori islamici condannino l’esperienza traumatica dello Stato islamico. Ma non basta esprimere un rifiuto categorico, è importante soprattutto che quest’ultimo sia argomentato. Senza un giudizio adeguato, i progetti islamisti potranno essere temporaneamente contrastati, ma mai veramente superati.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: