martedì 14 aprile 2020
I casi ufficiali di coronavirus nel continente sono 14.500, con 788 morti, ma i tamponi effettuati sono pochi. Sud Sudan, Congo, Nigeria e Sudan i territori che potrebbero essere più esposti
Un gruppo di senzatetto in un rifugio allestito a Città del Capo, in Sudafrica

Un gruppo di senzatetto in un rifugio allestito a Città del Capo, in Sudafrica - Ansa

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Solo chi non è mai stato in Africa può pensare che anche a queste latitudini possano essere seguite alcune delle indicazioni fornite a livello internazionale contro la diffusione del coronavirus. Impossibile lavarsi così spesso le mani laddove l’acqua è un bene così scarso, complicate le misure di lockdown in una regione del mondo in cui ampie fasce della popolazione vivono in abitazioni precarie e con la necessità di guadagnarsi da vivere alla giornata all’interno di un’economia informale.

Di più: l’Africa resta un territorio con sistemi sanitari di base lacunosi, una limitatissima disponibilità di terapia intensiva e in cui diversi fattori si intersecano per farne un preoccupante bersaglio per il coronavirus. I casi ufficiali finora nel continente sono 14.500 (e 788 i morti) ma il dato è tutto da interpretare. Un esempio: nelle scorse settimane, a chi gli chiedeva come avesse fatto il suo Paese a non aver ancora casi di positività al coronavirus, un ministro africano rispondeva serafico: “Semplice, non abbiamo mezzi per fare i test”.

A partire da questo contesto l’Africa center for strategic studies, un istituto di ricerca appartenente al Pentagono, ha mappato il continente per tracciarne un quadro relativo alla pandemia e individuare i Paesi più vulnerabili. Nove i fattori di rischio che sono stati intersecati per arrivare a una graduatoria: sistema sanitario, conflitti, sfollati, densità urbana, popolazione urbana, esposizione internazionale, età media della popolazione, trasparenza del governo, libertà di stampa. Non sorprende che in cima alla lista del rischio ci siano quattro Paesi – Sud Sudan, Repubblica democratica del Congo, Sudan e Nigeria – che in diversa misura hanno sperimentato in questi anni situazioni di conflitto o terrorismo.

Le guerre, a ogni livello, hanno tra le conseguenze quella di distruggere i sistemi sanitari locali, di limitare l’accesso ad acqua e cibo, di rendere in generale più vulnerabile a un’epidemia le popolazioni coinvolte. Dalla loro, quanto meno, i primi tre di questi quattro Paesi hanno avuto una esposizione internazionale molto bassa, quindi con pochi potenziali portatori del coronavirus dall’estero, mentre la Nigeria ha avuto gran parte dei contagi proprio da viaggiatori internazionali o da coloro che avevano avuto contatti con questi ultimi.

Al secondo livello di vulnerabilità gli esperti hanno inserito nel rapporto sette Paesi: si tratta di Camerun, Etiopia, Ciad, Somalia, Uganda, Egitto e Repubblica Centrafricana. In alcuni casi si tratta di Paesi che hanno un’alta densità nelle loro aree urbane che rende più facile la diffusione del contagio. Basti pensare alla capitale etiope Addis Abeba, che ha picchi di densità urbana più alti di New York (56mila persone per chilometro quadrato), per non parlare del Cairo (175mila per chilometro quadrato).

Secondo gli analisti, sarà fondamentale per molti Paesi vulnerabili del continente che i governi migliorino la loro comunicazione facendosi guidare dalla trasparenza: solo all’interno di un maggior clima di fiducia nelle istituzioni, infatti, le popolazioni locali saranno più portate ad aderire alle misure di contenimento necessarie per limitare il diffondersi dell’epidemia.

La stessa libertà di stampa è stata considerata tra i fattori di rischio. I media indipendenti, infatti, svolgono un ruolo indispensabile non solo nell’informare l’opinione pubblica ma anche nel funzionare da campanelli d’allarme del sistema in tempi di emergenza. Molti, sotto questo aspetto, i Paesi africani considerati “non liberi”: Eritrea, Camerun, Sud Sudan, Ruanda, Burundi, Gibuti, Guinea Equatoriale.

Tra i Paesi che finora sono in cima alla lista dei contagi c’è il Sudafrica (2.200), seguito da Egitto e Algeria (circa 2mila ognuno). E’ anche vero, però, che proprio il Sudafrica, potenza economica del continente, è tra i pochi Paesi dell’Africa sub-sahariana con un sistema sanitario quanto meno sufficiente (un migliaio i posti in terapia intensiva, a fronte di poche decine in molti altri Paesi) e tra quelli che hanno effettuato più tamponi. Al 4 aprile i campioni testati erano oltre 50mila, contro ad esempio i soli 3.800 tamponi eseguiti dall’Uganda. Le autorità sudafricane stanno ora lanciando nuovi sistemi di tracciamento per individuare i contatti dei positivi grazie a sistemi di telecomunicazione.

Secondo gli esperti, molte restano comunque le incognite sulla traiettoria della trasmissione del coronavirus in Africa. I campi profughi in cui grandi masse di sfollati vivono fianco a fianco in condizioni igienico-sanitarie impossibili rischiano di fare da detonatore. In 8 Paesi, in particolare, si concentra l’85% dei 25 milioni di sfollati in Africa.

Se povertà e sovraffollamento sono fattori di debolezza, c’è chi spera che il clima più caldo e un’età media più giovane possano essere armi a favore del continente contro la pandemia. Il fattore età, peraltro, va a cozzare con una situazione sanitaria generalmente più deficitaria e che vede la popolazione già esposta a malnutrizione, malaria, tbc e Hiv. Nel mondo circa l’80% delle vittime di Covid-19 sono persone sopra i 60 anni: con il 70% della popolazione sotto i 30 anni, l’Africa spera quanto meno di opporre al virus la forza della sua gioventù per limitare le conseguenze più devastanti di un’epidemia finora temuta per lo più solo da lontano.

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