lunedì 29 ottobre 2012
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«Anyone but Obama». Forse ha ragione Tom Wolfe, amato e detestato inventore del “New Journalism” insieme a Truman Capote e Norman Mailer, quando nel suo ultimo romanzo Back to Blood, uscito in libreria due giorni fa e subito diventato un caso letterario, sostiene che tutti in America odiano tutti, a Miami come a Denver, a Los Angeles come nel North Carolina, dove – dice – «è impossibile trovare un americano disposto a lavorare nei campi di cotone», e il race factor, il fattore etnico e razziale è decisivo. Stiamo attenti a questa considerazione.Perché è qui, a sud della linea Mason-Dixon (il confine catastale che alla fine del Settecento separava la Pennsylvania dalla Virginia e dal Maryland e che è diventato poi un vallo ideologico e culturale fra il Nord e il Sud) che si comincia a intravedere il cuore oscuro dell’America, il ribollente calderone delle cose non dette che agitano i sogni e le domande segrete di tanti americani e che potrebbero deflagrare nel voto del 6 novembre.Siamo a Charlotte, Nord Carolina, contea di Mecklenburg, 670mila abitanti, altopiano del Piedmont, la seconda città americana per numero di banche e spingendosi un po’ a Ovest una vista mozzafiato sulle Blue Ridge Mountains. A Charlotte è nato Bill Graham, il più noto e temuto fra i telepredicatori americani. Pastore battista i cui sermoni sono stati seguiti da due miliardi e mezzo di persone, compirà 94 anni il 6 novembre, giorno delle elezioni. Ma la sua scelta (il suo endorsement) è già nota: Mitt Romney è il suo candidato. È il figlio Franklin a farcelo sapere: il padre è disabile e affetto dal morbo di Parkinson, «ma lucidissimo», assicura Franklin. «Romney interpreta perfettamente quel bisogno di difendere la sacralità della vita e l’idea biblica di matrimonio che mio padre ha sempre sostenuto». «Qui le cose si dicono con maggior schiettezza e semplicità che altrove – dice orgoglioso Pat Mehanny, firma del Charlotte Observer – a volte anche quelle che non si possono dire». Ed è qui che vogliamo arrivare. Non tanto perché i vari sondaggi – Gallup, Rasmussen, Real Clear Politics – confermino che il Nord Carolina, terra di tabacco, maiali, agricoltura intensiva, sia più incline a votare Romney che Obama (che pure aveva preteso non a caso di fare qui a Charlotte la Convention democratica che lo incoronava candidato), quanto perché è qui, ai piedi della lunga falce degli Appalachiani, che gemma impudente quella risposta umorale prima ancora che politica che i grandi giornali statunitensi si rifiutano di ascoltare e di registrare. Quell’«anyone but Obama» – «chiunque purché non sia Obama» – che porterà molti a votare lo sconosciuto ex governatore del lontano Massachusetts Mitt Romney, mormone e quindi alieno in una terra battista e presbiteriana (i cattolici sono solo il 23%, rispettata e non trascurabile minoranza), ma che soprattutto è bianco, liberista, antistatalista «e non cerca di imitare l’Europa come fa Obama, con il fallimentare welfare che porta le nazioni alla rovina, come la Grecia». Vox populi.Abbiamo detto «bianco». Ed è un discorso difficile da fare, questo, perché relegato in un inconscio collettivo appena percettibile, eppure insistito e insistente, quel mormorio che in tutto il Midwest come negli Stati della Bible Belt – la cintura della Bibbia – considera l’ingresso della famiglia Obama alla Casa Bianca come un’inaccettata occupazione abusiva, un’impalpabile violazione di un patto sociale tacitamente condiviso dall’America bianca, che ora forgia medagliette e badge con scritto «Fire Obama», licenzia Obama, in nome di un liberismo a volte anarcoide (pensiamo alle strepitose gaffes di Romney sui poveri e sui «parassiti che vivono alle spalle della comunità») che sotto traccia tuttavia nasconde questi quattro anni in cui mezza America ha tollerato a malapena il Commander in Chief di colore che di secondo nome fa Hussein.Va da sé che Romney, nella sua spericolata conversione al centro nel terzo dibattito televisivo (tanto da meritarsi l’appellativo di “me-too”, anche io, per quel suo mimetizzarsi dietro le scelte del presidente) punta da un lato al divorzio plateale con i Tea Party, dall’altro a rassicurare e convincere quel ventre molle dell’elettorato che nel 2008 votò Obama ma che oggi chiede moderazione, sicurezza, orgoglio, rispettabilità e soprattutto meno tasse e meno aiuti di Stato alle imprese. Le donne, stando ai sondaggi, gli stanno danno credito: le “soccer moms”, soprattutto, quelle madri che passano la giornata a scarrozzare i figli da scuola al campo di allenamento alle case degli amici, ma anche le “waitress moms”, le mamme che fanno lavori umili, che non andranno mai al college e che difficilmente potranno mandarci i figli. Anche loro sognano.Nel Nord Carolina Romney ha raccolto 5,8 milioni di fondi a sostegno della campagna elettorale. I più generosi sono stati i banchieri, gli imprenditori e i business men. Obama non è stato da meno. Perdere il Nord Carolina con i suoi 16 grandi elettori e magari anche l’Ohio significa perdere le elezioni. Nel 2008 il 95% dei neri del Nord Carolina e il 92% in Virginia votarono Obama, ma rispettivamente il 64% e il 60% dei bianchi votarono per McCain. Oggi la percentuale di bianchi a favore di Romney – dice un sondaggio Cnn – potrebbe crescere ulteriormente. «Fino a raggiungere il record di Ronald Reagan – dice Ron Brownstein, fine analista molto ascoltato dalla Casa Bianca – che ebbe oltre il 60% del voto bianco in tutta la nazione».Perché è questa la sfida vera per Obama: sedurre quella maggioranza di bianchi che non lo vota, recuperare quella fetta di elettorato femminile che non gli crede più.
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