venerdì 6 settembre 2019
Anche la Camera dei lord vota a favore della legge, ora manca solo la firma della regina Elisabetta. Si attendono le contromosse del premier per tentare di uscire dall'angolo
COMMENTA E CONDIVIDI

È ancora troppo presto per dire che il rischio di una Brexit senza accordo è stato definitivamente scongiurato ma, intanto, la legge che porta il nome della laburista Hilary Benn, sostenuto dalla coalizione di opposizione per obbligare il governo a chiedere il posticipo del divorzio dall’Ue al 31 gennaio 2020, è (quasi) legge. Approvato ieri dalla Camera dei Lord, senza neppure una modifica rispetto al testo deliberato dai Comuni, il provvedimento dovrebbe diventare esecutivo lunedì, se non prima, con la firma della regina Elisabetta.

Secondo le procedure, il premier Boris Johnson dovrebbe adesso formalizzare per iscritto all’Ue la richiesta di posticipo del divorzio argomentandone le motivazioni. La domanda del momento è: lo farà? Alla luce della spregiudicatezza dei modi di fare del primo ministro, a suo stesso dire emulatore orgoglioso del decisionismo «alla Churchill», se così si può dire, la possibilità che Johnson si rifiuti di dare seguito alla richiesta del Parlamento non può essere esclusa. Ne deriverebbe, certo, un logorante scontro tra poteri destinato a scomodare le più alte autorità giudiziarie britanniche. Ma, fa notare l’attento osservatore politico di Itv, Robert Peston, alcuni conservatori di lungo corso ritengono che «il neo premier potrebbe infrangere la legge piuttosto che venir meno alla promessa» di portare il Regno Unito fuori dall’Ue entro il 31 ottobre. Non chiederò il rinvio «neanche morto», aveva del resto avvertito BoJo giovedì nello Yorkshire.

Bisognerà aspettare lunedì, giorno in cui l’Aula metterà nuovamente al voto la mozione governativa sulle elezioni anticipate al 15 ottobre, vigilia del cruciale Consiglio Europeo del 17, per capire come il premier intende muoversi. Le probabilità che la sua richiesta venga accolta sono inesistenti. Johnson non ha alcun tipo di maggioranza: né semplice né qualificata. Tantomeno i due terzi dell’Aula necessari a convocare nuove elezioni. L’erosione dei Tory, del resto, non accenna ad arrestarsi. I deputati Claire Perry e Michael Fallon hanno fatto sapere, ieri, che alle prossime elezioni non correranno più con il partito conservatore.

Fallito ogni tentativo di mediazione con il leader laburista Jeremy Corbyn, a cui il titolare di Downing Street avrebbe offerto un’approvazione senza ostruzione della legge Benn in cambio del voto al 15 ottobre, la coalizione di opposizione si è compattata nel «no» alla mozione governativa, determinata, piuttosto, a sostenere una chiamata alle urne dopo il 31 ottobre, probabilmente già a novembre, dopo aver sfangato il pericolo “no deal”.

Eppure, Johnson, qualcosa dal cilindro dovrà tirarla fuori. Ignorare la legge Benn e rifiutarsi di scrivere all’Ue è uno scenario che potrebbe trascinare il governo in una rovinosa scivolata verso l’“impeachment” che qualche brexiteer considera quasi necessario alla causa del “no deal”. Meno fantasiosa è l’opzione di un non poco rischioso harakiri: il premier potrebbe chiedere di essere sfiduciato, far cadere il governo e aspettare che l’opposizione trovi una maggioranza alternativa in 14 giorni. In caso di esito negativo, si arriverebbe alle tanto agognate urne.

Nessuna di queste opzioni è assicurata al rischio di un clamoroso fallimento. Johnson va però dritto per la sua strada, come se fosse già in aperta campagna elettorale. Dopo l’arrivo dall’Australia a Downing Street di Isaac Levido, guru elettorale di fama mondiale, nel team che sosterrà il premier in questa scommessa è arrivato, ieri, Tim Montgomerie, comunicatore di dichiarata fama. Alla “campagna acquisti” si contrappone la riduzione del numero di negoziatori destinati alle trattative con Bruxelles, mentre l’Europa aspetta ancora le «proposte concrete» promesse da BoJo per risolvere lo stallo del “backstop”, il nodo del confine nordirlandese.

L’operazione «Do or die» del premier («fare Brexit o morire»), ieri, ha fatto tappa in un Scozia, la regione forse più ostile alla separazione del Regno Unito dal continente che guarda al caos politico in corso come a un’opportunità per rilanciare il referendum separatista. Il proclama elettorale pensato da Johnson per gli scozzesi è fatto di numeri: all’agricoltura andranno oltre 200 milioni di sterline, 160 già stanziati, gli altri 51 previsti entro due anni.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: