venerdì 16 novembre 2018
Lasciano cinque membri del governo. La premier: intesa non è accordo finale. Il 25 novembre un vertice Ue straordinario per “finalizzare e formalizzare l'accordo”. Martedì probabile voto
martedì Theresa May potrebbe fare le valige: cresce il fronte nel partito per la sua sfiducia (Ansa)

martedì Theresa May potrebbe fare le valige: cresce il fronte nel partito per la sua sfiducia (Ansa)

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Theresa May non molla. È sola, ma andrà avanti. Lo ha ribadito ieri sera in una conferenza stampa organizzata a Downing Street al termine di una giornata drammatica e convulsa. A distoglierla dal portare avanti l’accordo su Brexit negoziato con l’Ue non sono bastate le dimissioni di cinque membri del suo esecutivo, tra cui quella “pesante” di Dominic Raab che ha seguito il suo predecessore David Davis, responsabile dei negoziati, né la minaccia di una sfiducia annunciata durante il confronto parlamentare dall’ala più estrema dei Brexiteer conservatori. «Io ho fatto il mio dovere – ha detto – più avanti toccherà al Parlamento fare il suo». La convocazione serale della stampa è servita anche per mettere in chiaro che non ci sarà mai un secondo referendum. Il popolo ha già votato «in massa» per la Brexit nel 2016, pertanto il Regno Unito «uscirà dall’Ue il 29 marzo 2019».

La necessità del chiarimento, dopo le dichiarazioni rilasciate a Westmin-ster, suona come un disperato tentativo di dimostrare che, nonostante il governo sia in frantumi, la partita non è ancora persa. Il colpo più difficile da digerire è, senza dubbio, quello delle dimissioni di Dominic Raab, a cui sono seguite, immediatamente dopo, quelle di Esther McVey, ministro del Lavoro, e di tre sottosegretari: Suella Braverman (Brexit), Shailesh Vara (Irlanda del Nord) e Anne-Marie Trevelyan (Istruzione). Il passo indietro di Raab è stato clamoroso perché mai neppure ipotizzato. Ha lasciato il governo con una lettera formale, ma molto grave, rilanciata su Twitter. «Non posso, in coscienza, riconciliare le condizioni dell’accordo proposto con le promesse che abbiamo fatto al Paese nel nostro manifesto », ha scritto. Due, in particolare, le ragioni della sua decisione. «La prima – ha spiegato – è che credo che il regime normativo proposto per l’Irlanda del Nord rappresenti una reale minaccia all’integrità del Regno Unito.

La seconda è che non posso sostenere un accordo indefinito di “backstop”, per cui l’Ue mantiene un veto sulla nostra abilità di uscire». A mettere in difficoltà il governo, ancora una volta, è stata l’annosa questione del confine irlandese e, appunto, il cosiddetto meccanismo di backstop. In gergo sportivo il termine backstop indica la rete posta alle spalle del battitore sul campo da baseball. Ciò che i tecnici europei hanno chiesto e ottenuto (a muso duro) dalla Gran Bretagna è proprio questo: un confine non rigido, «flessibile» proprio come una rete, tra l’Irlanda del Nord – che fa parte del Regno Unito – e la Repubblica d’Irlanda. Questa, a quanto pare, è l’unica soluzione possibile per dare a Belfast la possibilità di rimanere nel mercato comune europeo e nell’unione doganale senza che vengano ripristinati i controlli alla frontiera con l’Irlanda. La preoccupazione di Raab, che poi è quella degli unionisti nordirlandesi, è che tale meccanismo comprometta comunque l’unità del Paese. Purtroppo, però, al momento non c’è un’alternativa. May lo ha ribadito senza mezzi termini parlando ai Comuni: il backstop è «inevitabile», sarebbe stato parte di «qualsiasi accordo».

La rassicurazione che la premier ha cercato di offrire ai deputati su questo nodo è che, in ogni caso, si tratterà di una soluzione «temporanea», visto che l’accordo è una semplice «bozza» migliorabile in futuro. Nessuno, tuttavia, ha creduto a questa “favola”. Il dibattito a Westminster, avvenuto in contemporanea con un drammatico crollo della sterlina, ha visto uscire allo scoperto uno dei più rampanti Tory brexiteer, Jacob Rees-Mogg, 49 anni, cattolico, fiero sostenitore del divorzio «non consensuale» con l’Ue. Il deputato, nota spina nel fianco anche di David Cameron, ha annunciato una mozione di sfiducia alla leadership di May all’interno del partito conservatore. I numeri già ci sono (48 è il minimo di sottoscrizioni richiesto) ed è possibile che venga messa ai voti martedì. «Affronterò anche quello», ha risposto May, consapevole che la pattuglia dei ribelli Tory è ormai a quota 84. Lo scenario atteso a dicembre, quando l’accordo verrà messo ai voti del Parlamento dopo il passaggio europeo del 25 novembre, è dunque ancora aperto a ogni possibilità, compresa la convocazione di nuove elezioni. «Se non possiamo arrivare alle elezioni, in linea con i risultati del nostro congresso sosterremo ogni opzione rimasta sul tavolo, inclusa una campagna per un voto pubblico», è la posizione espressa ieri dal leader dei laburisti Jeremy Corbyn.

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