mercoledì 2 novembre 2022
In un breve annuncio ha autorizzato la transizione al vincitore alle urne Lula. Il Paese rischia il caos: le proteste impediscono la circolazione sulle principali arterie e la polizia non agisce
Un blocco stradale a Novo Hamburgo, nello Stato del Rio Grande do Sul

Un blocco stradale a Novo Hamburgo, nello Stato del Rio Grande do Sul - Ansa

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Quarantacinque ore. Tanto è durato il mutismo ostinato di Jair Bolsonaro. Un silenzio affollato dal clamore delle strade bloccate dai camionisti. Solo a fine serata, il leader dell’ultradestra si è presentato di fronte ai giornalisti da lui convocati al Palazzo di Planalto. E con il volto tetro ha dichiarato: «Continuerò a rispettare la Costituzione». Non prima, però, di aver precisato che la paralisi di centinaia di vie di comunicazione in tutti gli Stati, incluso il maxi-scalo paulista di Guarulhos, è causato «dall’indignazione e dal sentimento di ingiustizia per come si è svolto il processo elettorale». «Il nostro sogno è più vivo che mai», ha aggiunto. Il riconoscimento della vittoria di Luiz Inácio Lula da Silva alle presidenziali di domenica non c’è, dunque, stato, al contrario di quanto prefigurato dagli alleati più moderati.

Per tutto il giorno, il presidente della Camera, Arthur Lira, dal ministro dell’Economia, Paulo Guedes, al neogovernatore di San Paolo, Tarcisio Freites avevano cercato una mediazione. Alla fine, però, in meno di tre minuti di discorso, Bolsonaro ha mantenuto la stessa ambiguità della campagna in cui ha agitato senza remore il fantasma dei brogli. A quasi due giorni dalla diffusione dei risultati – certificati dal tribunale elettorale e dagli osservatori internazionali –, di nuovo, ha insinuato il sospetto senza sbilanciarsi troppo.

«Le manifestazioni pacifiche saranno sempre le benvenute ma i nostri metodi non possono essere quelli della sinistra», ha sottolineato. Un segnale in codice per i fedelissimi – hanno ventilato vari analisti –, un invito cifrato a “tenere duro”, andando avanti nella protesta in modo da giustificare il ricorso presidenziale all’articolo 142 della Costituzione che prevede l’intervento delle forze armate «per ristabilire l’ordine». Queste ultime sono rimaste finora ai margini della scena, anche per la cautela dei generali.

La truppa e i quadri intermedi sono sensibili, tuttavia, alle pressioni dei gruppi bolsonaristi più estremi che ieri hanno organizzato sit-in di fronte alla caserma per chiedere ai militari di «salvare il Paese dal comunismo». Gli stessi che hanno inondato i social di fake news sulla «vittoria scippata» al leader dell’ultradestra, nonostante lo sforzo della magistratura per contenerle.

Fuori dalla rete, il Brasile ribolle. I camionisti hanno continuato a paralizzare il transito di persone e merci. Già alcune di queste ultime – in particolare latte e carne – hanno iniziato a scarseggiare nei supermercati, come denunciato dalle associazioni dei commercianti. Perfino i rifornimento di ossigeno per gli ospedali sono rimasti intrappolati nel caos.

Di fronte a questo scenario inquietante, la Corte Suprema ha optato per un intervento forte. Il presidente, Alexandre de Moraes – bersaglio preferito delle invettive bolsonarista contro la magistratura – ha ordinato alla polizia statale – sotto il controllo dei governatori – di rimuovere i blocchi ovunque, anche nelle vie di competenza federale.

Ai trasportatori reticenti, inoltre, verrà comminata una multa di 100mila reais all’ora (l’equivalente di venti euro). Il procedimento, però, si profila tutt’altro che semplice. Anche perché, a volte, come a San Paolo, ai manifestanti si sono uniti gli agenti federali, dipendenti dall’esecutivo centrale. E «di fronte a questi abusi», i militanti pro-Lula, in primis il Movimento dei lavoratori senza tetto, hanno minacciato di liberare le strade da soli contravvenendo alla strategia della “distensione” portata avanti dai vertici del Partito dos trabalhadores (Pt) e l’entourage del neo-eletto.

Nel Brasile-polveriera ogni passo falso può scatenare un’esplosione a catena. Ne è consapevole il centro-sinistra e, in questo, trova sponda nei settori meno radicali del bolsonarismo. Con questi ultimi, Lula ha trattato per avviare la transizione. Il leader progressista ha nominato capo dell’équipe incaricata di trattare con l’amministrazione fino all’entrata in carica, il vice Geraldo Alckim. La figura ideale dato il pedigree indubbiamente conservatore e il passato da avversario del Pt.

L’avvio del passaggio di consegne, a partire da domani, è stato confermato dal capo dello staff di Bolsonaro, Ciro Nogueira. «È stato autorizzato dal presidente», ha affermato. Può essere. Del resto, anche Donald Trump aveva designato una squadra per trattare con Joe Biden. Questo, però, non gli impediva di gridare al «golpe». Né ha evitato la tragedia di Capitol Hill. Il dramma si ripeterà nell’altra metà del Continente? L’unico dato certo, al momento, è che il discorso del presidente uscente non ha spinto i sostenitori alla smobilitazione. Al contrario, questi si sono detti determinati a proseguire. «Il nostro sogno – ripetevano in coro – è più vivo che mai».

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