America Latina: il primo segnale sarà di Cuba e Venezuela
sabato 20 febbraio 2021

Per quattro anni è stata la «fabbrica dei bad hombres». La turbina instancabile da cui si alimentava il flusso di milioni di esseri umani verso il Nord. Spegnere l'ingranaggio, con le buone o con le cattive, è stata la missione, incompiuta, dell'Amministrazione Trump in America Latina. I governi della regione hanno ricevuto la patente di alleati o ostili in base alla collaborazione nel frenare le migrazioni. L'evidente desencuentro tra le due Americhe ha prodotto, tuttavia, incontri inattesi tra il muscolare Donald e vari caudillos a sud del Rio Bravo. Se con Jair Bolsonaro la sintonia era scontata, sorprendente è stato il rapporto cordiale – a tratti amichevole – con il vicino Andrés Manuel López Obrador, esponente della sinistra messicana e fervente nazionalista. Al di là di questi due estremi, molti presidenti del Continente apprezzavano la propensione trumpiana a chiudere un occhio, o tutti e due, su temi scomodi quali la tutela ambientale, la lotta alla corruzione o la difesa dei diritti umani.
A meno che non si trattasse di L'Avana, Caracas e Managua, la «troika del male» a prescindere. Anche in questo caso, però, lo sguardo di Washington era rivolto all'interno. Ovvero alla necessità di garantirsi il sostegno degli esuli anti-castristi e venezuelani residenti in Florida. L'era Biden è iniziata all'insegna della discontinuità. Le urgenti questioni interne – dal Covid alla recessione – non hanno impedito al nuovo presidente di rivolgere le sue attenzioni al di là del Rio Bravo. Con uno slancio inedito. Il fatto sorprende solo in apparenza. L'allora vice Joe Biden era, nella squadra di Barack Obama, il referente per le questioni latinoamericane, regione in cui ha compiuto sedici viaggi. In particolare, come egli stesso narra nella propria autobiografia, gli era toccato gestire la crisi innescata dall'arrivo in massa di minori non accompagnati dal Centro America e aveva convinto l'Amministrazione a varare un pacchetto di aiuti straordinari per le principali terre d'esodo: El Salvador, Honduras e Guatemala.
Proprio da queste ultime nazioni è partito il «nuovo corso»: Biden ha cancellato gli accordi di «Paese terzo sicuro» siglati dal predecessore. I richiedenti asilo negli Usa non vi potranno essere più dirottati. Né verranno più inviati in Messico ad aspettare l'esito della domanda. Anzi, le decine di migliaia – 67mila secondo le stime più accreditate – in attesa oltreconfine da mesi, alcuni da oltre un anno, verranno riportati negli States a partire da un primo gruppo di 25mila persone con le pratiche già avviate. Non è un caso che l'esordio latino di Biden abbia preso di mira il muro legale costruito da Trump per blindare la frontiera. Se intorno alla questione migratoria aveva ruotato la politica del repubblicano, proprio da lì il successore vuole segnare il proprio passo. Un'andatura nuova. Il cui apogeo dovrebbe essere la regolarizzazione degli undici milioni di immigrati irregolari residenti da anni o da decenni negli Stati Uniti. Il progetto di legge appena presentato è coraggioso perché dà accesso alla cittadinanza a quanti paghino le tasse. Per la sua approvazione, però, occorre il via libera di almeno dieci senatori repubblicani. Convincerli non sarà facile. Molto dipenderà dalla capacità di Biden di frenare l'arrivo in massa di altre decine di migliaia di migranti al confine Sud. Da qui l'idea di un piano speciale da 4 miliardi per lo sviluppo dell'America centrale. Un'idea lodevole. Sempre che sia abbinata a un impegno serio, possibilmente coordinato, nella lotta alla corruzione, endemica nell'area.
Su Cuba e Venezuela, la parola d'ordine è abbassare i toni. Sia Biden sia l'attuale segretario di Stato, Antony Blinken avevano avuto un ruolo di primo piano nell'apertura nei confronti dell'Avana durante i mandati di Obama. E' presumibile, dunque, che Washington cerchi di riportare l'orologio a quattro anni fa, prima della controffensiva di Trump. Su Nicolás Maduro, il pensiero dell'attuale presidente non si discosta di molto da quello del predecessore. La differenza sta nell'approccio, più sfumato come dimostrano le prime decisioni. Pur confermando le sanzioni sul settore petrolifero e sui funzionario chavisti più in vista, il dipartimento del Tesoro ha consentito alcune operazioni nei porti e aeroporti venezuelani. Il mutamento è minimo. Biden sa di dover procedere in punta di piedi. Almeno fino a quando non potrà contare sulla leva dell'Avana per premere su Caracas.
Nel frattempo, la Casa Bianca ha allargato lo spettro di attenzione sui diritti umani, prendendo posizione sulle possibili alterazioni dello Stato di diritto in Guatemala e El Salvador nonché sulla strage degli attivisti in atto in Colombia. In molti presidenti è scattato un immediato campanello d'allarme. Niente, però, in confronto a quanto potrebbe provocare la «pressione verde» per convincere i governi latinoamericani a impegnarsi contro il cambiamento climatico.
Già Bolsonaro scalpita di fronte al progetto di un fondo da 20 miliardi per la protezione dell'Amazzonia. E López Obrador, sostenitore del petrolio, difficilmente gradirà l'impegno Usa per le rinnovabili. Il fermento, però, dimostra che il messaggio è passato: gli Usa guardano di nuovo verso Sud. Se n'è accorta perfino Mosca. Ai tempi del Covid, la competizione tra le due potenze rivali si esprime in una gara tra Pfizer e Sputnik per diffondere il proprio vaccino nella regione. Al momento, il colosso farmaceutico Usa è ancora in vantaggio, ma i russi incalzano. In questa riedizione pandemica della Guerra fredda anche le fiale possono trasformarsi in armi.

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