venerdì 9 agosto 2019
I lavoratori protestano, ma Boris Johnson non ha neanche voluto incontrarli: «È solo una questione commerciale»
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Chissà se stanno per andarsene anche loro, Sansone e Golia, le due gigantesche gru gialle che svettano nel cielo di Belfast. Forse la chiusura definitiva degli storici cantieri navali Harland & Wolff cambierà per sempre anche il panorama della città, oltre al futuro del Paese. È più che lecito domandarselo, adesso che l’industria-simbolo dell’Irlanda del Nord sta per esalare l’ultimo respiro, soffocata da una crisi che affonda le sue radici nella seconda metà del Novecento.

Gli ultimi residui di quell’eccellenza dell’ingegneria navale europea sono andati in amministrazione controllata dopo 158 anni di onorata attività, schiacciati dalla concorrenza dei colossi asiatici. Nel giugno scorso i norvegesi di Dolphin Drilling, da trent’anni proprietari dell’azienda, hanno presentato istanza di fallimento e messo in vendita i cantieri navali di Belfast ma da allora nessun possibile compratore si è fatto avanti. In questi giorni sono state recapitate le lettere di licenziamento ai 130 lavoratori rimasti, che adesso stanno occupando gli stabilimenti in una forma di protesta disperata. Erano più di 35mila nel periodo tra le due guerre mondiali, e negli anni ’70 la forza-lavoro superava ancora le 10mila unità.

La Harland & Wolff sembrava un’azienda inaffondabile come il Titanic, che uscì da questi cantieri nel 1912 per affrontare il suo primo e unico viaggio nell’Oceano. Il declino dell’industria cantieristica britannica iniziò negli anni ’50, in seguito alla minore richiesta di navi passeggeri e della crescente concorrenza giapponese. Negli anni ’70 le gravi difficoltà del settore spinsero il governo di Londra a nazionalizzare l’azienda, che nel 1989 venne infine ceduta a una cordata guidata dal magnate della cantieristica norvegese Fred Olsen. Il numero dei dipendenti era già sceso a tremila.

Negli ultimi anni, con il settore delle imprese di costruzione navale ormai quasi completamente in mano a Cina, Corea del Sud e Giappone, l’ex gigante britannico è stato costretto a convertire le proprie attività, dedicandosi esclusivamente alla riparazione di navi e piattaforme petrolifere, e alla costruzione di turbine eoliche offshore. L’ultimo bilancio presentato da Harland & Wolff risale al 2016: riporta una perdita di quasi sei milioni di sterline e un fatturato crollato ad appena otto milioni, dai sessantasette dichiarati nel 2015. Adesso la BDO, una delle più importanti società di revisione contabile della Gran Bretagna, è stata incaricata dall’Alta Corte di Belfast di svolgere la procedura di amministrazione controllata per cercare di evitare un crac definitivo che appare sempre più vicino.

Il crepuscolo della Harland & Wolff arriva peraltro in un momento in cui tutta l’economia del Nord Irlanda – che ha già perso gran parte del suo vasto settore manifatturiero – si trova a dover affrontare le imminenti (e probabilmente pesanti) conseguenze della Brexit. Ecco perché la completa rinazionalizzazione dei cantieri navali chiesta a gran voce dai sindacati appare molto più che un’utopia. Ad aggravare ulteriormente la situazione c’è inoltre il fatto che da oltre due anni e mezzo l’Irlanda del Nord è priva di un governo.

I lavoratori, chiusi da giorni all’interno del cantiere, sono decisi a continuare la protesta a oltranza. Ma nella sua prima visita in Irlanda del Nord da capo del governo, Boris Johnson non ha neanche voluto incontrarli, sostenendo che la crisi della Harland & Wolff «è soltanto una questione commerciale».

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