mercoledì 1 gennaio 2020
Trump accusa l'Iran e minaccia azioni. Khamenei replica: «Risponderemo a eventuali rappresaglie». Resta altissima la tensione
Lo stemma dell'ambasciata Usa a Baghdad strappato dai miliziani sciiti prima del ritiro

Lo stemma dell'ambasciata Usa a Baghdad strappato dai miliziani sciiti prima del ritiro - Reuters

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A metà pomeriggio se ne sono andati. Più che i lacrimogeni, sparati di primo mattino dalle forze di sicurezza Usa, a far sgombrare i viali di accesso al “Mammut”, l’imponente ambasciata statunitense a Baghdad è stato l’ordine di ritirata delle Hashd al-Shaabi, le Forze di mobilitazione popolare a maggioranza sciita. È il Capodanno a Baghdad, in quella che finora era considerata l’inviolabile “Green Zone” nel cuore della capitale irachena ormai da un mese senza un premier disarcionato dalle proteste. È il capodanno 2020 che potrebbe inaugurare fra le macerie non ancora rimosse della guerra al Daseh, la nuova “proxy war” del Medio Oriente: lo scontro per procura in Iraq fra Washington e Teheran.
La «mobilitazione» era stata preannunciata domenica da Kataib Hezbollah, una delle milizie più radicali delle Forze di mobilitazione popolare: una risposta ai raid degli Usa di domenica contro alcune basi della milizia in Iraq e Siria che avevano fatto almeno 25 vittime e una cinquantina di feriti. Pochi giorni prima, il 27 dicembre, una trentina di missili lanciati da Kataib Hezbollah su una base militare a Kirkuk avevano ucciso un contractor Usa.
Così nel pomeriggio di San Silvestro era iniziato l’assedio simbolico: una manifestazione di alcune migliaia di persone, proseguita poi per tutta la notte fra bandiere e poster di Moqtada al-Sadr, il leader estremista sciita a capo della lista “Sairun”, maggioranza in Parlamento, ma che a fine novembre aveva appoggiato le rivolte. Un sit-in con bandiere a stelle e strisce date alle fiamme con una cinquantina di tende montate davanti a un vicino hotel per passare l’ultima notte dell’anno.
Mentre nella Green zone di Baghdad si montavano cucine da campo e, addirittura, alcuni bagni portatili, era il segretario alla Difesa statunitense Mark Esper ad annunciare che il Pentagono invierà «immediatamente» altri 750 soldati in Medio Oriente, mentre «ulteriori forze» sono pronte per essere schierate «nei prossimi giorni». Un ridispiegamento di truppe ad alto effetto mediatico, ma che per ora non rappresenta un reale cambio di rotta dell’Amministrazione Trump. Molto probabilmente i “rinforzi” non sono altro che quel migliaio di uomini che a ottobre Trump aveva ritirato dalla Siria. Un contingente che avrebbe già dovuto essere riposizionato in Iraq, ma che segna un forzoso cambio di rotta rispetto al disimpegno dei 50mila uomini impiegati fino al 2018 nella guerra al Daesh, lasciando in quest’ultimo anno nel Paese un presidio di 5mila uomini. Secondo indiscrezioni il Pentagono avrebbe già inviato altri 500 militari in Kuwait, mentre secondo fonti anonime alla fine nella regione potrebbero essere schierati «fino a 4.000 soldati». Un “dietrofront” rispetto alla promessa di Trump di riportare a casa tutti i soldati.

Ansa


Mentre la piazza smobilita, inizia la battaglia politica in una Baghdad dove ormai si agisce in base ad interessi stranieri. «Abbiamo raggiungo una grande vittoria, siamo arrivati fino all’ambasciata Usa, cosa che nessuno aveva mai fatto prima», dichiarava Mohammad Mohyeddin, portavoce di Kataeb Hezbollah. «Ora la palla è in mano al Parlamento», ha aggiunto, riferendosi ai tentativi di revocare la copertura legale ai 5.200 soldati Usa di stanza in Iraq e contro cui le fazioni filo-Iran stanno conducendo una vera e propria campagna. Donald Trump ha invece avvertito che Teheran «sarà ritenuta pienamente responsabile delle vite perse o dei danni alle strutture» americane in Iraq e che «pagherà un caro prezzo». Dal 28 ottobre almeno 11 attacchi hanno già preso di mira basi militari irachene dove sono presenti militari o diplomatici statunitensi: il 3 dicembre cinque missili colpirono la base aerea di al-Asad, solo quattro giorni prima di una visita alle truppe del vice-presidente statunitense Mike Pence. Segnali di un confronto sotterraneo pronto ora a fare scintille, anche se poco dopo lo stesso Trump ha poi affermato di non aspettarsi una guerra tra gli Stati Uniti e Iran: «Non vedo la possibilità che accada», ha dichiarato il presidente.
Immediata la risposta della Repubblica islamica: il ministero degli Esteri ha convocato l’incaricato d’affari dell’ambasciata svizzera, che rappresenta gli Usa in Iran, per consegnare la sua «forte protesta», mentre la Guida suprema Ali Khamenei ha condannato la «malvagità» americana, invitando Trump a ragionare prima di twittare, e ha avvertito: «Se qualcuno ci minaccia, ci confronteremo senza esitazione e lo colpiremo». E la piazza a Baghdad è pronta a un nuovo assedio: «Il nostro sit-in è eterno, finché non sarà chiuso questo covo del diavolo», afferma un leader delle proteste mentre attorno si bruciano le ultime bandiere a stelle e strisce.

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