mercoledì 12 dicembre 2012
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Cresce la pressione internazionale sul Pakistan davanti al dilagare degli episodi di intolleranza religiosa e si moltiplicano gli appelli al presidente Asif Ali Zardari perché intervenga a favore di Asia Bibi, diventata simbolo delle ingiustizie in un Paese incerto, con una popolazione vasta tre volte quella italiana, musulmana al 96 per cento. Un pressione che, se forte e costante ma rispettosa della sensibilità religiosa e della legge locali, potrebbe consentire al presidente di agire con maggiore forza sulla componente islamista della sua stessa coalizione di governo e sulle opposizioni, nella prospettiva di risolvere positivamente il “caso” di Asia Bibi ma anche di avviare una concreta riflessione sulla “legge antiblasfemia”.Non molti hanno accettato all’estero quello che era sembrata la “retromarcia” di Zardari davanti all’intenzione manifestata di concedere il condono ad Asia Bibi nelle convulse settimane che ne avevano seguito la condanna a morte in prima istanza nel novembre 2010. Un’intenzione senza seguito per le necessità della politica e per la volontà di non far divampare una fiammata integralista accesa già dall’estate 2009 con gli assedi pianificati alle enclave cristiane di Gojra e altri centri della provincia del Punjab.A conferma delle difficoltà, nemmeno il sacrificio del governatore musulmano del Punjab, Salman Taseer, nel gennaio dello scorso anno, e quello del ministro cattolico per le Minoranze Shabaz Bhatti due mesi dopo – entrambi per avere sostenuto la  liberazione di Asia Bibi e una revisione della legge antiblasfemia – hanno avviato un processo parlamentare per rimediare ad abusi e ingiustizie della legge. Hanno però fornito motivazione e slancio a un ampio movimento di azione della società civile e di settori della leadership musulmana, della magistratura e della politica che cerca al momento di limitare l’applicazione severa della legge in attesa che le condizioni ne consentano una revisione.«Non manca una volontà del governo di cercare una soluzione per Asia Bibi e nemmeno la convinzione che la legge è fonte di abusi», chiarisce il cattolico Paul Bhatti, ministro per l’Armonia religiosa. Ancor più forte, però, è la coscienza che la situazione non consente mosse che possano mettere a rischio ulteriore la stabilità di un potere già fragile e con essa anche la sorte delle comunità assediate e di quanti sono in cella in attesa di giudizio per blasfemia oppure già condannati. Per questo Shahbaz Bhatti, assassinato nel marzo 2011 per il suo impegno per la revisione della legge e la giustizia per Asia Bibi, aveva fondato poco prima della sua tragica fine l’Apma (All Pakistan Minorities Association). Un forum politico di cui fanno parte voci e volti diversi che va crescendo in autorevolezza, oggi sotto la guida di Paul Bhatti, e al quale le autorità sembrano avere delegato un ruolo di mediazione tra le comunità, di ricerca di una via del dialogo che per Paul Bhatti, che di Shabaz era fratello, è l’unica possibile. Un dialogo che si va estendendo a molti settori della vita pubblica e della società civile su un duplice binario: quello della ricerca pragmatica di cooperazione tra gruppi e fedi che spesso condividono povertà e problemi; quello di un lavorio attento che cerchi di salvare la vita a chi, come Asia Bibi sarebbe con ogni probabilità liberata dalla legge che finora non ha mai confermato in appello le sentenze capitali per blasfemia, ma rischierebbe di cadere per mano di fanatici, sobillati da una fatwa o incentivati da una taglia.
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