sabato 15 dicembre 2012
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​Pooche, pochissime cose hanno avuto in comune Barack Obama e Mitt Romney durante la loro lunga e spietata corsa verso la Casa Bianca. Una di queste è stato il rifiuto di entrambi di pronunciarsi sulla diffusione incontrollata delle armi in un Paese lasciato diviso, teso, spesso disperato da quattro anni di licenziamenti e pignoramenti. Era una questione «ideologica» per il repubblicano («a uccidere è la persona, non la pistola» è da sempre il mantra conservatore negli Stati Uniti), era una posizione strumentalmente elettorale per il presidente, debole al Sud e nelle campagne, dove le armi da fuoco sono di casa. Ma le elezioni sono passate e il sangue è tornato a scorrere. Sangue di innocenti, e questa volta di piccoli che non sanno di voti né di crisi economica, di disoccupazione o di disperazione, di vendette insensate o di diritti sanciti dal secondo emendamento della Costituzione americana. Bambini che stavano aspettando le vacanze di Natale e la visita di Santa Claus. Ora le scuse usate fino a pochi mesi fa dalla Casa Bianca per rimandare una decisione difficile e per nascondersi dietro la logica della potentissima lobby dei produttori di armi suonano oltraggiose. Vietare la vendita al pubblico dei mitra e delle armi d’assalto «infrange una delle libertà fondamentali dell’individuo», dice la National Rifle Association. Avranno i suoi rappresentanti il coraggio di ripeterlo anche oggi, come fanno puntualmente all’indomani di ogni strage? E dopo l’orrore di ieri, potrà ancora Obama presentarsi all’America e invitarla a pregare per le sue vittime, tralasciando di dire che sarebbe suo dovere cercare di proteggerle? Potrà ancora una volta dire ai genitori americani di andare a casa e stringere forte i loro figli, grati che anche questa volta non sono finiti nel mirino del male, quando ieri sera una trentina di famiglie si chiedeva chi aveva messo uno strumento di morte e terrore nelle mani di un folle, chi avrebbe potuto fermarlo e perché non lo ha fatto?«È ora di essere uniti e di pensare alle cose e alle persone che contano nella nostra vita, non è ora di fare politica», aveva detto Barack Obama il luglio scorso, interrompendo la campagna elettorale quando uno studenti con una storia di squilibrio mentale si era mascherato da Jocker di Batman e aveva fatto strage di spettatori in un cinema di Aurora, in Colorado. Ci sono state altre sparatorie assurde da allora, in angoli diversi del Paese. Ogni volta un gruppo di sindaci ha avuto il coraggio di dire le cose come stanno: sono le persone a uccidere, sono i pazzi a volere vedere la morte negli occhi di un bambino dell’asilo, ma se non ha un grilletto che spara a raffica proiettili di calibro militare un pazzo può essere bloccato. A guidare questo gruppo è Michael Bloomberg, il sindaco indipendente di New York, l’unico uomo politico che nel mezzo dell’accanita campagna elettorale si era appellato ai due candidati pregandoli di dire, e soprattutto di fare qualcosa per fermare la vendita facile delle armi. Il primo passo, invocato da Bloomberg e dalle associazioni per il controllo delle armi, è reinstaurare il bando alla vendita delle armi d’assalto, come quelle usate nella maggior parte delle sparatori in supermercati, scuole e cinema. Obama lo aveva promesso quattro anni fa, ma l’impegno è restato lettera morta. Ora il suo portavoce, mentre si rincorrevano le notizie ancora frammentarie sul massacro, è tornato sul tema: «Il presidente resta impegnato nel tentativo di rinnovare il bando sulle armi d’assalto». Ironia della sorte proprio oggi cade il 221esimo anniversario dell’inserimento nella Carta fondamentale del secondo emendamento sulle armi. Riuscirà la carneficina di ieri a tentare di scalfire quel principio?
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