mercoledì 23 ottobre 2019
Da Haiti alla Bolivia, le rivolte si estendono per il Continente contro diseguaglianze, corruzione e rincari Chiusa l’era delle dittature, i cittadini chiedono di più alla democrazia
Sono sempre più numerose le proteste che stanno infiammando l’America Latina/ Epa

Sono sempre più numerose le proteste che stanno infiammando l’America Latina/ Epa

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«Latinoamerica en llamas », America Latina in fiamme. Quando, nel 2010, il poeta messicano Francisco Azuela ha dato questo titolo alla sua nuova raccolta, il Continente terminava un decennio di boom economico, stabilità politica, entusiasmo per il futuro. Eppure, ancora una volta, la letteratura era stato in grado di intuire il covare, sotto la cenere, di un fuoco di crescente malcontento. Nove anni dopo, l’incendio è scoppiato.

E brucia l’intera regione, da Haiti alla Bolivia. Quest’ultimo Paese è l’ultimo, in ordine di tempo, a unirsi il coro della rivolta. La ragione è politica: l’improvvisa vittoria di Evo Morales per un quarto mandato – proclamata in via ancora non definitiva dalla Corte Suprema – è vista dall’opposizione come una frode elettorale.

Più a sud, in Cile, i cortei hanno infiammato le principali città. Stavolta a scatenarli è stato uno scontento sociale a lungo ignorato. Ed esploso in seguito all’aumento del prezzo del biglietto della metro. Il presidente, Sebastián Piñera, è stato il secondo capo dello Stato a dichiarare lo stato di emergenza dopo l’ecuadoriano Lenín Moreno, anch’egli bersaglio della furia popolare, nelle scorse settimane, dopo il rincaro del carburante.

Altrove – come ad Haiti, in Venezuela, in Honduras e, per certi versi, in Argentina e Perù – questione politica e sociale sono profondamente intrecciate. Il dramma messicano è legato al narcotraffico e alla conquista da parte delle grandi organizzazioni criminali di interi pezzi di istituzione.

Mentre la Colombia affronta la sfida del dopo-guerra. Nel caleidoscopio di crisi, tuttavia – che si estendono a macchia di leopardo – è possibile trovare un filo conduttore. Di cui proprio il metro di Santiago – epicentro della battaglia cilena – è metafora. La ferrovia sotterranea che attraversa la capitale andina, è tra le più moderne del Continente. Eppure è anche il luogo dove che riassume tutti i suoi nodi irrisolti. La lotta per aggiudicarsi uno spazio minimo nei vagoni perennemente sovraffollati, le code che costringono le persone ad alzarsi all’alba per raggiungere il luogo di lavoro e a rincasare troppo tardi per avere una minima vita familiare, i salari sproporzionati rispetto al costo della vita che impediscono alla gran parte della popolazione di avere un mezzo privato ricordano quotidianamente ai cittadini la grande promessa mancata della democrazia. Chiusa la tragica stagione delle dittature, la gente sperava che il nuovo sistema si facesse carico del dramma della diseguaglianza, ancora la più alta al mondo. Molto è stato fatto.

Ma la società procede a un ritmo più veloce della politica. Tanto più che l’efficienza di quest’ultima è minata dalla corruzione. È questo scarto la radice dello scontento latinoamericano. L’incremento dell’istruzione e i lunghi decenni di libertà civile hanno dato alle persone maggior consapevolezza dei propri diritti. Non sono, dunque, più disposte ad attendere. La protesta, però, spesso fa fatica ad adeguarsi al contesto democratico: da qui i ripetuti episodi di violenza. L’attuale stagione di ebollizione, però, non deve necessariamente essere un ritorno al passato. Potrebbe, invece, trattarsi di una crisi di crescita della democrazia latinoamericana.

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