giovedì 16 giugno 2022
Nato dal miraggio della Grande Albania e dai bombardamenti della Nato in Serbia non ha risolto il rapporto tra la maggioranza albanese e musulmana con la minoranza serba e cristiana
Mezzi militari italiani in una piccola enclave serba in Kosovo

Mezzi militari italiani in una piccola enclave serba in Kosovo - A.Masiello/Archivio Avvenire

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A oltre vent’anni dalla fine del conflitto che chiuse le guerre balcaniche degli anni ’90, il Kosovo resta un focolaio di instabilità al centro di una battaglia di influenze geopolitiche tra la Russia, la Cina e l’Occidente. Il rapporto con la vicina Serbia continua a essere segnato dalle tensioni: la richiesta ufficiale di adesione al Consiglio d’Europa presentata alcune settimane fa da Pristina ha scatenato di nuovo le ire di Belgrado, che non riconosce l’indipendenza del Kosovo e continua a considerarlo parte del proprio territorio nazionale.

L’antica contrapposizione tra la maggioranza albanese-musulmana e la minoranza serbo-cristiana nella regione fu rinfocolata dal nazionalismo di Belgrado subito dopo il crollo della Jugoslavia. Slobodan Milosevic, primo presidente della Serbia post-comunista, presentò un piano di riforme costituzionali che cancellavano una volta per tutte le autonomie concesse al Kosovo da Tito e assunse il pieno e diretto controllo della provincia.

La risposta della popolazione albanese fu inizialmente nonviolenta, guidata dal «Gandhi dei Balcani» Ibrahim Rugova. Ma dopo la firma degli accordi di Dayton del 1995 che misero fine alle guerre in Bosnia e in Croazia, i separatisti albanesi dell’Uck (l’esercito di liberazione del Kosovo) cominciarono ad attaccare le postazioni militari e le strutture statali di Belgrado. Il loro obiettivo non era soltanto quello di liberarsi dall’influenza serba ma anche di creare una «Grande Albania» unificando tutti i territori balcanici a maggioranza albanese.

Nella seconda metà degli anni ’90 l’organizzazione mise a segno una serie di attentati contro la polizia, i cittadini serbi e gli albanesi accusati di «tradimento».

La prima vera battaglia tra l’Uck e le pattuglie della polizia serba si consumò 8.874 giorni fa, il 28 febbraio 1998. L’uccisione di quattro poliziotti dette il via a una rappresaglia serba che causò una strage di civili nei villaggi di Likoshan e Qirez. Ebbe inizio una guerra violentissima che in appena quindici mesi fece circa 14mila vittime e centinaia di migliaia di sfollati.

Il conflitto si concluse nel giugno del 1999 dopo l’intervento aereo della Nato, che bombardò la Serbia costringendo Milosevic alla resa. Il Kosovo venne sottoposto all’amministrazione dell’Onu ma l’irrisolta questione del suo status ha portato a nuove tensioni e violenze, come quelle scatenate dagli estremisti albanesi nel marzo 2004, in cui vennero date alle fiamme centinaia di case della minoranza serba e una trentina di chiese e monasteri ortodossi.

La Serbia ha sempre contestato l’indipendenza proclamata dal Kosovo nel 2008, mentre il mancato riconoscimento da parte della Russia e della Cina ha finora a Pristina impedito di entrare a far parte delle Nazioni Unite. Neanche l’opera di mediazione svolta in questi anni dall’Ue per normalizzare le relazioni con Belgrado ha dato finora i frutti sperati.

L’ultima disputa risale alla primavera scorsa, quando la leadership politica di Pristina ha negato ai serbi kosovari la possibilità di votare alle elezioni politiche in Serbia del 3 aprile, scatenando nuove manifestazioni di protesta. Ora, l’ennesimo tentativo di dialogo riprende lunedì prossimo a Bruxelles. Con poche speranze.

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