venerdì 14 settembre 2012
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​L’attacco contro il consolato americano a Bengasi e il presunto ruolo giocato da al-Qaeda rimette sotto i riflettori la guerra segreta in corso in Africa tra gli Stati Uniti e la centrale del terrore. Il rischio – paventato più volte negli anni scorsi – della costituzione di un grande “arco integralista” che si estende dalle coste dell’Atlantico fino al Corno d’Africa e lo Yemen diventa sempre più reale. Nell’aprile dell’anno scorso, il comandante militare delle operazioni americane in Africa assicurava che il tentativo del Boko Haram, di al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi) e degli Shabab somali di coordinare e sincronizzare i loro sforzi «sarebbe la cosa peggiore per gli africani, ma anche per noi». Il timore ha avuto l’ennesima conferma lo scorso aprile con la proclamazione di uno Stato separato nel nord del Mali. L’intera regione, con le sue storiche città di Gao, Timbuctù e Kidal, è presto caduta sotto controllo di una vasta nebulosa di gruppi radicali armati. Uno di essi è Ansar al-Din (i Partigiani della fede, ndr).  Questo si è reso famoso con un gesto che ricorda da vicino quello dei taleban con le statue di Buddha in Afghanistan.  Ossia la distruzione dei monumenti che celebrano Alfarouk, il mitico angelo difensore della città di Timbuctù. Dalle loro basi in Algeria e nel Nord del Mali, anche gli uomini di Aqmi – che operano in stretta relazione con il Movimento per l’Unicità e il Jihad in Africa occidentale (Mujao) – seminano terrore e morte tra la popolzione. All’inizio del mese, i due gruppi hanno annunciato l’esecuzione del vice console algerino a Gao, preso in ostaggio lo scorso 5 aprile. Due le opzioni per il governo di Bamako: quella militare – cui darebbero un contributo i Paesi della regione – o quella dei negoziati cui si sta dedicando in particolare il Burkina Faso. In mezzo, dimenticati da tanti, mezzo milione di civili in fuga dalle violenze. Più a sud, nella Nigeria, Boko Haram ha intensificato nei mesi scorsi i suoi attacchi contro i cristiani. L’attentato suicida condotto dal gruppo il 26 agosto 2011 contro la sede dell’Onu ad Abuja, che ha provocato 24 morti, rappresenta la prima prova del legame tra il movimento nigeriano e Aqmi. Solo una partnership tra i due gruppi, spiegano gli esperti, può spiegare la crescente sofisticazione degli attacchi di Boko Haram, compreso l’uso di un’autobomba. Poteva anche significare un aumento del flusso di denaro nelle casse del gruppo, che fino ad allora si autofinanziava principalmente derubando le banche in tutta la metà settentrionale (musulmana) della Nigeria. Dei collegamenti di Boko Haram con altri gruppi jihadisti parlano apertamente anche i servizi segreti nigeriani (State security service, Sss). Ne è convinto anche Andrew Lebovich, analista americano presso il National Security Studies Program, il quale vede nei clamorosi attentati di Boko Haram una “lettera di credenziali” alla struttura mondiale di al-Qaeda. La guerra in Somalia ha trasformato l’intero Corno d’Africa in un terreno aperto all’infiltrazione delle ideologie radicali provenienti dalla Penisola arabica. La zona, come del resto tutta l’Africa orientale, ha sempre occupato un posto prioritario nella strategia di al-Qaeda. Non molto lontano, a Khartum, si era trasferita tra il 1992 e il 1996 gran parte della leadership dell’organizzazione, approfittando dell’ospitalità offerta dal regime islamico di Hassan al-Turabi. Dalla capitale sudanese lo stesso Benladen mandava i suoi emissari a reclutare nuovi adepti alla causa islamica. Una missione sfociata successivamente negli attentati contro le ambasciate americane in Kenya e Tanzania, nell’agosto 1998, che hanno provocato centinaia di vittime. Sulla sponda yemenita del Mar Rosso, un altro fronte contro il terrorismo impegna duramente il Pentagono. Quattro giorni fa, le forze armate yemenite hanno annuciato l’uccisione di Said al-Shehri, considerato il secondo nella linea di comando di al-Qaeda nella Penisola arabica (Aqap) insieme ad altri sei militanti in un’operazione nella provincia di Hadramout, nello Yemen orientale. Gli Stati Uniti hanno più volte usato i loro droni senza pilota per colpire Aqap e gli stessi leader qaedisti del movimento somalo degli shabaab che hanno legami stretti con la penisola arabica attraverso il Golfo di Aden. Un anno fa, è stato preso di mira Anwar al-Awlaki, noto come primo cittadino americano a essere inserito nella lista dei “killing targets” della Cia. Fino ad allora Awlaki aveva incarnato il prodotto finale di due culture agli antipodi, quella ultraconservatrice yemenita e “l’American way of life”.
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