sabato 8 giugno 2019
Ferito nella repressione in Nicaragua, il 15enne è arrivato con la Carovana in Messico. Poi, l'entrata negli States. Operato grazie i volontari si è diplomato.
Il giorno del diploma

Il giorno del diploma

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Posa con l’abito del diploma della Hogg Middle School appena ottenuto, a fianco alla bandiera del suo Nicaragua. Axel Palacio Molina sorride fiero. Non solo per il successo scolastico conseguito. Finalmente, dopo oltre dieci mesi di calvario, il 15enne ha abbandonato stampelle e sedia a rotelle. Nello scatto appare ben ritto sulle sue gambe. “Guarda come me le hanno aggiustate bene!”, dice il ragazzino. A rimetterlo in piedi sono stati i medici dell’ospedale pediatrico di Houston che hanno effettuato un delicato intervento, finanziato dalla chiesa protestante Ecclesia, per estrarre il proiettile conficcato nell’anca destra.


“Lo sapevo che se fossi arrivato negli Usa, avrei potuto correre di nuovo”, afferma raggiante. E’ stata questa convinzione granitica a dare la forza a lui e al resto della famiglia di camminare – nel senso letterale del termine – per oltre 4mila chilometri. In buona parte insieme alla Carovana che, lo scorso autunno, ha raccolto migliaia di disperati del Centroamerica. Uomini, donne, bimbi e adolescenti in fuga dalla violenza delle bande criminali che tengono in ostaggio interi pezzi della regione, dalla corruzione che divora l’economia, dal cambiamento climatico che secca i raccolti.

Axel e la sua famiglia scappavano dalla feroce repressione di Daniel Ortega. Erano stati i suoi sgherri a soffocare nel sangue la protesta civica a Diriamba, città a una quarantina di chilometri da Managua, l’8 luglio scorso. Una rivolta pacifica, portata avanti in gran parte da giovani e giovanissimi, come Axel e il suo amico Josué. “Noi lo chiamavamo “Fetito”, perché era piccolo e magro. Era il mio migliore amico. La polizia di Ortega è arrivata all’alba, armata fino a denti. Hanno sparato ad altezza d’uomo. “Fetito” era stato colpito ed era caduto a terra. Si sono avvicinati e l’hanno finito con un proiettile di Kalashnikov al torace. Ho cercato di fargli scudo con il mio corpo e sono stato ferito”, racconta Axel che si è salvato per un soffio.


Altri manifestanti l’hanno portato via in braccio e l’hanno tenuto nascosto. “Non ci hanno messo molto a venire a casa ha cercarlo. Hanno fatto tre irruzioni. Ogni volta dicevano: “Tuo figlio è un terrorista. Dove sono le armi?” Ovviamente non c’era nessun arma. Ero una maestra, al limite potevano trovare qualche quaderno.. Mio figlio non aveva ancora compiuto 15 anni, come poteva essere un terrorista? – aggiunge la madre, Idania Molina -. La terza volta, si sono scagliati su mia figlia di 17 anni. “Ora la facciamo parlare”, dicevano. Sapevo che cosa significava, non potevo permetterlo. Allora li ho supplicati: “Fate quello che volete a me, ma lei lasciatela stare…” Allora si sono accaniti su di me”.


A quel punto, la vita dei Palacio Molina era segnata. Restare significava la morte. Per questo, attivisti per i diritti umani e sacerdoti hanno aiutato Idania a raggiungere Managua con l’altra figlia, Chely, di 12 anni, per denunciare. “Là siamo rimaste nascoste in attesa di ricongiungerci con Axel e il marito di Idania, Lester, e lasciare il Paese, ovviamente di nascosto. La cosa peggiore è stata dover lasciare la mia figlia maggiore. Era troppo sorvegliata ed è dovuta rimanere con mia madre. Non sa quanto mi manca..”. Per seminare la polizia orteguista, la famiglia ha cambiato cinque “case sicure”, come vengono chiamati i luoghi in cui si nascondono i dissidenti. Poi, alla fine di agosto, una volta riunita la famiglia, l’esilio.

Prima l’Honduras, poi il Guatemala quindi il Messico, dove ha incontrato la Carovana. “I fratelli centroamericani sono stati molto solidali. Sono rimasti commossi dalla nostra storia. Dato che non riuscivo a camminare mi hanno portato a spalle per lunghi tratti. Poi, insieme alle autorità del Chiapas, hanno fatto una colletta per comprare una sedia a rotelle. Mi dicevano: “Almeno tu devi farcela”. E’ anche grazie a loro se sono qui. Grazie a loro e ai giornali che hanno scritto di me”, afferma Axel.


Già perché la storia del piccolo nicaraguense che marciava verso gli Usa in sedia a rotelle ha conquistato i media internazionali, tra cui Avvenire, tra i primi a raccontarla e a cercare di aiutare a distanza i Palacio Molina. “Quando, finalmente, abbiamo raggiunto il confine tra Matamoros e Brownsville, gli agenti avevano sentito parlare di noi. Così ci hanno fatto restare “solo” un giorno accampati sul ponte in attesa di poter presentare domanda di asilo”, sottolinea Idania.

Da quando, dalla primavera 2018, Donald Trump ha imposto una stretta sulle istanze di rifugio, le richieste vengono accettate con il contagocce. Le persone attendono mesi alla frontiera prima di poterla sottoscrivere e, in genere, vengono rispediti ad aspettare la risposta in Messico.
Per i Palacio Molina, però, alcune guardia coraggiose hanno fatto un’eccezione. Quel 7 gennaio, in bilico tra Messico e Usa, Idania lo ricorda perfettamente. Il terrore di essere divisi o respinti. Il freddo pungente della notte. I passi marziali dell’uomo di guardia. E, alla fine, quelle parole di salvezza pronunciate in un misto di inglese e spagnolo: “E’ il ragazzino della sedia a rotelle. Loro devono passare”.


Certo, si tratta solo di un primo passo. Non poco, però, nell’epoca di muri a oltranza, fisici e legali, per fermare il flusso dei rifugiati. I Palacio Molina hanno presentato istanza e sono stati ascoltati in una prima udienza. Ne occorrono, però, almeno altre due per sapere se potranno restare sul suolo statunitense. Nel frattempo, però, grazie a Ecclesia, hanno trovato una prima sistemazione a Houston. Idania fa le pulizie ad ore, Lester qualche lavoretto di tanto in tanto, Chely frequenta la scuola. Come Axel che, allo studio, abbina continui esercizi di riabilitazione.

“Sono stati mesi duri, durissimi. Ma ne è valsa la pena. Ormai cammino senza troppo sforzo, sto imparando l’inglese e ho terminato la terza media. A scuola, professori e compagni hanno cercato di darmi una mano per inserirmi, così sono riuscito a prendere dei buoni voti. Quando mi chiedono che cosa vorrei fare da grande, rispondo il Marine. Per ripagare questo Paese che mi ha accolto. E con i risparmi, vorrei fare dei regali a quanti mi hanno aiutato quando non avevo niente. Ci vorrà tempo lo so. Ma la Carovana mi ha insegnato la pazienza. Si avanza così: un passo alla volta”.

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