sabato 14 giugno 2014
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​George W.Bush pensava che gli Stati Uniti potessero trasformare rapidamente una dittatura frammentata in schegge settarie in una democrazia funzionante. Barack Obama ha definito «stupida» la guerra ereditata dal suo predecessore e ha fatto di tutto per liberarsene, augurandosi di non vanificare il sacrificio di quasi 4.500 soldati americani e l’investimento di 2mila miliardi di dollari. Oggi, 11 anni dopo i primi bombardamenti Usa in Iraq e due anni e mezzo dopo il ritiro voluto da Obama, l’Iraq rappresenta per gli Stati Uniti una minaccia senza precedenti. E il presidente americano si trova a un passo dal mandare di nuovo gli F16 a bombardare Mosul o Falluja. L’Amministrazione Obama è stata accusata di aver sottostimato gli insorgenti islamici in Iraq. Ieri il capo della Casa Bianca ha negato che le ambizioni di dominio dei terroristi dello Stato islamico in Iraq e nel Levante (Isis), gruppo feroce sganciatosi da un ramo di al-Qaeda, siano «qualcosa di nuovo». L’intelligence americana, ha spiegato, li monitorava da tempo. È per questo che negli ultimi mesi il primo ministro iracheno Nouri Kamal al-Maliki, dopo aver rifiutato nel 2011 di autorizzare la presenza di un gruppo di militari Usa sul suo territorio, ha implorato il Pentagono di inviare missili e droni. Ma è innegabile che Washington è rimasta sorpresa dalla velocità e dall’efficienza con cui i combattenti dell’Isis hanno conquistato Mosul e si stanno avvicinando a Baghdad.La posizione della Casa Bianca, secondo cui gli iracheni nel 2011 hanno scelto di essere responsabili della loro sicurezza e di prevenire politicamente esplosioni settarie, logicamente non fa una piega. Ma i fatti sul terreno rappresentano un rischio troppo grande per la sicurezza americana perché Obama se ne lavi le mani. Considerato però che una campagna di bombardamenti Usa infiammerebbe ancora di più la rabbia sunnita, che ha oliato l’avanzata dei militanti dell’Isis, e rafforzerebbe la determinazione di altri jihadisti in Medio Oriente, si capisce come la «stupida guerra» di cui non riesce a liberarsi sia diventato un incubo per il presidente democratico. Che ieri è apparso frustrato. «Questa dovrebbe essere una sveglia per gli iracheni», ha detto Obama, ripetendo a più riprese, «per essere chiaro», che spetta a loro, agli iracheni, risolvere i loro problemi. «Non ci faremo trascinare in un’azione militare mentre i leader politici non hanno un piano che ci garantisca che sono pronti a lavorare insieme (ai sunniti, ndr.)». Obama dunque si prenderà «qualche giorno» per individuare il male minore, consapevole che sia l’inazione che un attacco avranno profonde ripercussioni in Siria – dove i combattenti dell’Isis si sono addestrati e dove rinforzano le fila dei militanti islamici anti-Assad – e in Iran, che ha già inviato truppe in Iraq per contenere la temuta nascita di un califfato sunnita al loro confine. Giorni in cui il presidente avrà modo di riflettere sulla possibilità che una guerra iniziata sulla base di calcoli errati e abbandonata per sfinimento politico si possa concludere con un colossale fallimento, macchiando il giudizio della storia su Barack Obama.
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