giovedì 24 marzo 2016
Nella banlieue di Molenbeek sporchi intrecci droga-jihad
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A Molenbeek e in altre banlieue europee divenute focolai jihadisti, i reclutatori più abili del Daesh non pescano a caso le future pedine dell’orrore. Al contrario, quasi sempre, prestano grande attenzione ai “vantaggi” offerti dai giovani già legati a reti criminali internazionali strutturate e radicate, come quella che ha trasformato il Belgio in una piattaforma di smistamento dell’hashish. Quest’ultimo giunge in Europa soprattutto dal Rif, la regione montagnosa a nord del Marocco. Dopo la cattura di Salah Abdeslam, già coinvolto a Molenbeek proprio nel traffico di droga, quest’analisi è stata rilanciata in Francia da un docente della Sorbona, Pierre Vermeren, specialista del Maghreb e delle comunità europee d’origine maghrebina. Sul Figaro, lo studioso ha citato diversi dettagli emersi dalle indagini in corso per riaffermare quanto sia fuorviante, almeno nel caso belga, la vecchia ipotesi dei “lupi solitari”.  Per lui, ci sono pochi dubbi sul fatto che «i gruppi terroristici di Bruxelles hanno trovato posto nelle famiglie e nelle reti legate al Rif». Non si tratterebbe di un legame preesistente, ma di una sorta di terreno di coltura che il Daesh ha saputo sfruttare per i propri fini. Per Vermeren, «è nelle reti mafiose dell’esportazione e distribuzione dell’hashish che si sono annidate in modo naturale le cellule, poi le reti jihadiste», come mostrerebbe pure la scelta di Abdeslam di tornare a Molenbeek, dov’era cresciuto, per la propria latitanza. Certi promotori locali del fondamentalismo jihadista avrebbero capito meglio di altri come far leva sugli squilibri interiori degli spacciatori già reclutati dalle reti criminali, dato che «questi giovani hanno molto da farsi perdonare». E in proposito, «si può contare sui reclutatori per ricordarglielo». Non pochi di questi individui, paradossalmente, sono al contempo socialmente emarginati, ma tutt’altro che privi di risorse economiche: «Sono ricchi grazie al traffico e conoscono le armi e i fornitori, sono abi- tuati a maneggiare denaro e ad utilizzare covi, sanno circolare in Europa e attraverso le frontiere, soprattutto attorno allo stretto di Gibilterra. Di continuo, fanno i giocolieri fra telefoni, Internet e una comunicazione diretta, da uomo a uomo, dove la parola tradita equivale alla morte». Vermeren avanza pure che un certo strisciante lassismo in Belgio e nel resto d’Europa verso i trafficanti di droga sta adesso finendo per fare il gioco del Daesh.  Non si tratta di un’analisi isolata. Anzi, il nocciolo del ragionamento, ovvero le crescenti occasioni locali di osmosi o contiguità operative fra terrorismo anche jihadista e reti criminali che controllano i traffici illeciti, è lo stesso difeso ad esempio dalla nota criminologa americana Louise I. Shelley nel suo ultimo saggio, sintesi di lunghe ricerche, dal titolo esplicito: “Dirty entanglements. Corruption, crime and terrorisme”. A evidenziare nelle ultime ore proprio gli «sporchi intrecci» attivi da tempo a Molenbeek sono anche altri noti conoscitori di quel contesto. Lo specialista di terrorismo Thomas Renard, membro dell’Egmont Institute di Bruxelles, ha evidenziato, ai microfoni della radio pubblica francese, i profili «ibridi» di molti jihadisti delle reti in Belgio: «In un primo tempo, abbiamo constatato delle convergenze fra gruppi terroristici e gruppi criminali, allo scopo di procurarsi armi. E nel quadro del Daesh, osserviamo sempre più la radicalizzazione e il reclutamento presso gli individui che hanno un passato nel crimine classico. Questi individui, che sono già dei radicali nel senso sociale del termine, si radicalizzano a livello religioso, diventando gli individui più pericolosi, poiché hanno già infranto gli argini che permettono loro di darsi alla violenza estrema». Anche Renard insiste sul ruolo crescente di un “familismo terroristico” simile a quello deviato sottolineato da Vermeren a proposito dei traffici di droga. I reclutatori lo avrebbero capito perfettamente: «Il processo di reclutamento opera con molto successo nei circoli di amici stretti e nelle cellule familiari. Un personaggio carismatico riesce a radicalizzare un individuo, il quale a sua volta esercita un’influenza su un fratello, sui suoi amici stretti, in una sorta di effetto a catena che spiega bene perché questa radicalizzazione agisce sempre negli stessi quartieri». Anche per l’antropologo belga Johan Leman, che lavora dagli anni Ottanta proprio a Molenbeek, dove presiede oggi il centro sociale Le Foyer, i giovani jihadisti non sono di certo sbucati dal nulla. «Le antenne del Daesh in Europa, a Molenbeek come altrove, sono organizzate come strutture mafiose e reagiscono come tali», ha dichiarato al Figaro. «Occorre parlare della “Mezzaluna povera”, lungo il canale, che comprende in particolare i sobborghi di Forest, Molenbeek, Schaerbeek ecc., fra i quali si spostava Abdeslam durante la latitanza. Bastano 10 minuti in macchina per attraversare questa mezzaluna che è divenuta per i terroristi un labirinto che percorrono a piacimento, dove possono contare su solidarietà e covi. Per schematizzare, i candidati al jihad più “ingenui” sono partiti in Siria, al servizio della “causa”. I più determinati sono rimasti qui e hanno, in molti casi, legami con il traffico di droga ». Anche Leman insiste a sua volta su Molenbeek come tappa chiave lungo la rotta della droga fra il Rif marocchino e Amsterdam, attraverso pure la Spagna e Marsiglia. Lo stesso itinerario di cui si serviva ad esempio Mehdi Nemmouche, accusato della strage del maggio 2014 al Museo ebraico di Bruxelles e adesso in cella a Bruges nello stesso penitenziario di Abdeslam.
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