mercoledì 2 luglio 2014
​La 27enne ha descritto il parto in prigione. L’avvocato: dopo una nuova denuncia ora rischia un’altra procedura giudiziaria.
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Meriam Ibrahim, la cristiana condannata a morte per apostasia in Sudan – sentenza che è stata annullata nei giorni scorsi – e ora rifugiata presso l’ambasciata statunitense di Khartum, è vittima di una nuova procedura giudiziaria scatenata da una denuncia da parte di persone che affermano di essere suoi parenti.  A sostenerlo è l’avvocato della donna, secondo cui le persone che l’accusano, tutte di fede musulmana, sarebbero le stesse che nel 2013 la denunciarono per apostasia. «Credo che la corte respingerà» questa nuova denuncia, ha aggiunto l’avvocato di Meriam.  In un’intervista alla Cnn, Meriam ha intanto descritto il parto con cui ha dato alla luce in prigione lo scorso 27 maggio la secondogenita Maya. E ha denunciato che, a causa delle difficili condizioni in cui il parto è avvenuto, la bimba è fisicamente disabile, anche se il grado di disabilità sarà più chiaro quando Maya crescerà. «Non so se avrà bisogno di aiuto per camminare », ha detto Meriam, che ha sottolineato di essere stata costretta a partorire in catene. «Non riuscivo ad aprire le gambe e così le donne mi hanno dovuta sollevare dal tavolo. Non ho partorito stesa. A mia figlia è successo qualcosa», ha aggiunto. Meriam, nata da padre musulmano, 27 anni, è stata condannata a morte il 15 maggio da un tribunale sotto la legge islamica, che vieta le conversioni, per aver sposato un cristiano. Una sentenza che ha provocato una grande mobilitazione internazionale.  Già madre di un bambino di 20 mesi, è stata anche condannata a cento frustate per «adulterio», perché secondo l’interpretazione sudanese della sharia, qualsiasi unione tra un musulmano e un non musulmano è considerato «adulterio». Liberata il 23 giugno dopo l’annullamento della condanna, Meriam è stata fermata poi all’aeroporto, dove si accingeva a volare negli Stati Uniti con il marito, che è anche cittadino americano. È stata poi rilasciata, ma su di lei pende ancora l’accusa di aver presentato un documento «straniero» (del Sud Sudan) alla polizia di frontiera sudanese, un fatto considerato «illegale » dalle autorità sudanesi. «Non riesco neanche a decidermi su cosa fare adesso – ha detto Meriam alla Cnn  –. Vorrei andarmene e allo stesso tempo non vorrei. Ma nello stato in cui mi ritrovo sono costretta ad andarmene. Ogni giorno sorge un nuovo problema sulla mia partenza». La donna è da qualche giorno ospite dell’ambasciata degli Stati Uniti a Khartum in attesa dei documenti necessari all’espatrio.
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