venerdì 22 luglio 2016
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Un “eroe” teatrale fino al midollo.  Che punta a colpire chi non cerca risposte razionali, ma è disposto a farsi persuadere da una narrazione convincente, seppur spesso inverosimile. Linguaggio ruvido, proposte a volte strampalate e fuori dagli schemi. Donald Trump non si è fatto mancare niente, nella sua corsa verso la nomination repubblicana. Ha prestato il fianco a mille accuse e critiche. Eppure ora è là, campione di un partito che non lo ama e che però grazie a lui ha avuto una partecipazione record alle primarie. Il miliardario che si spaccia per candidato della working class, l’estraneo al palazzo e alla politica paludata, presenta al tempo stesso un insieme di punti di forza e di debolezza. Innanzitutto ha un’indiscussa capacità di attirare l’attenzione. E con qualunque stratagemma o sparata («Costringerò Apple ad abbandonare la Cina e produrre i suoi dannati computer negli Usa»).

Sa cosa funziona sui media e sui social network. Su Twitter ha 9,7 milioni di follower, un’enormità, 2,4 milioni più di Hillary Clinton. E ogni suo tweet è una stilettata ben congegnata e ripresa poi da giornali e tv. Ha una capacità unica di creare discussioni che dominano l’agenda politica per giorni, toccando argomenti che flirtano con il malcontento degli americani. Vedi, negli ultimi giorni, il tema della sicurezza. Inoltre riesce a restituire un’immagine brillante di sé, trasformando anche le controversie in elementi a suo favore. Laddove altri candidati prima di lui – su tutti John Kerry nel 2004 – sono stati gravemente danneggiati dai cosiddetti “flip-flop”, ovvero dai cambiamenti di posizione su uno stesso argomento, il tycoon riesce spesso a cavarsela. Anzi: lui stesso ha sottolineato che la flessibilità è un aspetto positivo, soprattutto per un presidente che deve continuamente negoziare con il Congresso e i leader stranieri. Il camaleonte Trump ha soluzioni semplicistiche “giuste” per tutti, pur di «far tornare grande l’America». Basta con i trattati economici internazionali, “guerra” commerciale a Cina e Giappone, deportazione degli 11 milioni di immigrati irregolari.

Di certo il magnate non ha timore di farsi promotore di punti di vista poco ortodossi.  In un’era in cui molti politici, Clinton inclusa, istintivamente rifuggono qualsiasi dichiarazione che si allontana dalla linea standard del loro partito, Trump ama gli slanci spericolati. E finora ha pure funzionato. Da qui la difesa del programma federale di Social Security o le parole di elogio verso gli abortisti di Planned Parenthood, posizioni che avrebbero significato la rovina per candidati repubblicani del passato. In un momento storico in cui molti americani apprezzano pochissimo lo status quo, Trump ha trovato più libertà d’azione semplicemente grazie al suo essere diverso dai politici che lo hanno preceduto e al suo non far parte del sistema-Washington. Il tycoon ha specificamente messo nel mirino la fascia elettorale della classe lavoratrice bianca, tendenzialmente poco istruita e molto arrabbiata. I disoccupati sono con lui, chi ha subito sulla propria pelle le dinamiche più spietate della globalizzazione è con lui. Meraviglioso paradosso questo di un miliardario che è riuscito a imporsi nelle primarie come il paladino degli emarginati. 

Anche i ricchi, però, piangono, così anche Trump ha i suoi punti deboli. Primo tra tutti: i suoi progetti sono spesso considerati dall’elettorato moderato e indipendente troppo poco concreti o, semplicemente, irrealizzabili. Il suo piano di tagli alle tasse, secondo molti analisti, farebbe rischiare al Paese il tracollo; la sua ipotesi di tirar fuori gli Usa dalla Nato («obsoleta, ci costa troppo») appare utopistica, così come il dotare di armi nucleari Giappone e Corea del Sud per contenere il regime nordcoreano. A volte, quando l’intervistatore non molla il colpo, Trump dà idea di avere troppa poca dimestichezza con argomenti importanti, come quando è rimasto confuso davanti a domande sulla Brexit e le sue conseguenze. E questo sì che è un punto debole rispetto ad una rivale così esperta come Hillary Clinton. E poi i suoi commenti denigratori contro i musulmani, gli immigrati, le donne. Le proposte di «chiudere l’Internet» in funzione antiterrorismo, di legalizzare la tortura, di costruire un muro con il Messico o bloccare l’ingresso agli islamici, il suo fingere di non conoscere il Ku Klux Klan, che invece lo sostiene. Certo Trump cementa così l’ala più dura (e xenofoba) del suo elettorato, ma si aliena i voti degli indipendenti e del centro, lì dove davvero si vincono le elezioni americane. Solo tra le donne lo svantaggio da Hillary è ormai in doppia cifra stabile (50% contro 37%). Il re dell’immobiliare è inoltre assediato dagli scandali, come la causa in corso per frode sulla sua Trump University e le accuse di elusioni fiscali multimilionarie. Al di là dei facili entusiasmi della Convention di Cleveland, resta inoltre tiepido il sostegno di parte del partito repubblicano nei confronti di un candidato mai apprezzato. La più chiara manifestazione di questo aspetto è stato il mancato endorsement dell’ex rivale Ted Cruz. Se l’elettorato ha voluto Trump, deputati e senatori lo sopportano appena, e la loro capacità di mobilitare risorse sul terreno è cruciale per la vittoria finale. Trump lo sa, anche se non è detto sia così razionale da accettare di scendere a patti. Ma paradossalmente, se vincerà, sarà stato proprio grazie a questo.

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