venerdì 15 gennaio 2016
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Ora che la minaccia è alle spalle, restano tutte le macerie, personali e sociali, di un virus che ha colpito duro come mai aveva fatto prima d’ora. Ebola, il grande incubo che partito dall’Africa occidentale ha spaventato per mesi pure Europa e Stati Uniti, è stato sconfitto. Anche la Liberia, dopo Guinea e Sierra Leone, è ufficialmente «ebola free», libera da «tutte le catene conosciute di trasmissione nell’Africa dell’Ovest», come ha sancito ieri l’Organizzazione mondiale della sanità essendo trascorsi 42 giorni dall’ultimo caso registrato nel Paese. In poco più di due anni dal primo caso in Guinea, il virus ha provocato 11.315 morti su 28.637 contagi. E in molti villaggi, ora, il dramma è per chi è rimasto solo. Nei tre Paesi più colpiti dal virus, sottolinea l’Unicef, sono ben 23mila i bambini che a causa della malattia hanno perso uno o entrambi i genitori e la persona che si prendeva cura di loro. Spenti i riflettori sul dramma sanitario, un’intera generazione continuerà quindi ad avere bisogno di sostegno. E come se non bastasse, più di 1.260 bambini, contagiati ma sopravvissuti alla malattia, devono ora affrontare delle vere e proprie sfide (mediche e sociali) per essere nuovamente accettati nella propria comunità.«Ebola è stata un’esperienza terrificante per i bambini – sottolinea Manuel Fontaine, direttore regionale dell’Unicef in Africa occidentale e centrale –. Dobbiamo fornire loro e al popolo della Guinea, della Liberia e della Sierra Leone tutto il nostro supporto per far sì che continuino a riprendersi dai devastanti effetti che questa malattia ha avuto sulla loro vita». La stragrande maggioranza degli «orfani da ebola» è stata affidati a parenti più stretti oppure a membri delle comunità. Secondo l’agenzia dell’Onu, però, è fondamentale continuare ad aiutarli con sostegni in denaro, materiale scolastico, abbigliamento e cibo per sostenere nuove modalità di assistenza familiare. Da parte sua Unicef, che ha lanciato un appello per raccogliere 15 milioni di dollari per le necessità più immediate, si pone l’obiettivo di rafforzare i siste- mi di protezione dei minori. Ciò significa garantire che le autorità nazionali si impegnino per il supporto psico-sociale, il ricongiungimento familiare, cure provvisorie o alternative, e lo sviluppo di una rete che permetta di prevenire e contrastare abusi e violenze contro i bambini più a rischio. «Oggi è una giornata di celebrazione», ma «dobbiamo tutti imparare da questa esperienza per migliorare la nostra risposta di fronte a future epidemie e malattie trascurate», sottolinea da parte sua Joanne Liu, presidente internazionale di Medici senza frontiere. Importante è anche ricordare i tanti operatori sanitari che hanno perso la vita lottando in prima linea contro l’ebola. Nel momento di picco dell’epidemia, Msf ha impiegato quasi 4mila persone di staff nazionale e oltre 325 operatori internazionali – 63 gli italiani – per combattere il virus. «Per tutta l’epidemia ho visto la malattia distruggere intere comunità – spiega Saverio Bellizzi, epidemiologo di Msf –. All’inizio la risposta dalla comunità sanitaria internazionale è stata paralizzata dalla paura. È stato orribile essere lasciati soli a rincorrere ogni giorno l’onda dell’epidemia». Nei prossimi tre mesi la Liberia comincerà un periodo sotto stretto monitoraggio. I rischi, spiega l’Oms, rimangono, anche perché il virus può rimanere nei liquidi corporei dei sopravvissuti anche per nove mesi. La Liberia, infatti, ha vissuto l’esperienza amara di dichiararsi già «ebola free» nel settembre del 2015, ma il Paese ha conosciuto, nei mesi successivi, delle nuove insorgenze localizzate. La speranza è che questa volta davvero si possa pronunciare per questa epidemia la parola fine.
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