martedì 7 giugno 2022
Claudio Risé: pandemia e lavoro agile hanno agevolato il rientro in famiglia degli uomini. Tendenza che va consolidata
Claudio Risé in un'immagine d'archivio

Claudio Risé in un'immagine d'archivio - Meeting du Rimini/Gallini

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Papà è tornato a casa. Dopo decenni di «assenza inaccettabile», il padre ha finalmente fatto ritorno tra le mura domestiche, ha voglia di famiglia, di passare del buon tempo coi figli, e di lasciare loro qualcosa di più e di diverso da un’eredità di soli beni materiali. Che cosa? È presto per dirlo, ma la semplice presenza di un padre, restituito alla famiglia dalla nuova dimensione che ha assunto la casa dopo l’esperienza della pandemia, dei lockdown e del lavoro da remoto che ne è seguito, è già di per sé sufficiente a mettere in moto un cambiamento capace di segnare un’epoca.

Claudio Risé, psicoterapeuta e psicoanalista di formazione junghiana, il tema lo conosce a fondo: per anni ha indagato la crisi del ruolo paterno e l’origine e le conseguenze che l’espulsione dei padri dal nucleo familiare hanno provocato nelle persone e nella società. In un noto libro del 2003, Il Padre, l’assente inaccettabile, ma anche in Il mestiere di padre, come in molti altri saggi, ha aiutato a leggere in questa uscita di scena della figura paterna una delle ragioni del declino del senso religioso e della capacità di dare un significato alle prove della vita, spiegando molto del buio che ha segnato l’esistenza delle giovani generazioni.

Oggi Risé è in libreria con un nuovo testo, Il ritorno del padre (Edizioni San Paolo), aggiornamento del precedente, che sta riscuotendo grande interesse perché coglie un cambiamento forse inatteso, e apre uno sguardo rinnovato sui fenomeni in atto. Ciò che si starebbe manifestando è il tramonto della cultura degli anni Settanta e Ottanta e dei miti che hanno caratterizzato quella stagione, comprese le leggi che hanno contribuito all’indebolimento della famiglia. A guidare l’uscita dal deserto rappresentato dal «cinquantennio dei comportamenti sfrenati e dell’affettività gelida» sono i Millennials, i nati tra il 1980 e il 1990, ovvero i figli di chi è stato studente nel ’68, dunque la generazione che per prima si è trovata a pagare in pieno il prezzo di quella rivoluzione.

Uno degli effetti più visibili del cambio nei costumi sociali che ha caratterizzato gli anni 70 è stato il rigetto del matrimonio: a un certo punto per una generazione di maschi sposarsi è diventata una prospettiva da evitare, anche per la paura di ritrovarsi a vivere il dolore di un’esperienza traumatica che spesso era stata sperimentata in prima persona. Oggi invece, a detta di Risé, il giovane maschio è tornato a desiderare un nucleo all’interno del quale scambiare affetti e cure, «e se trova una ragazza che condivida questo sogno è ormai spesso in grado di sposarla».

Sull’espressione che usa Risé, «in grado» ci si potrebbe scrivere un intero saggio, perché è proprio l’uscita di scena del padre uno dei fattori all’origine del crollo dell’autostima nei figli. Ma è nella modalità in cui sta avvenendo questo clamoroso ritorno del padre, che si può cogliere l’intuizione di uno sguardo nuovo, forse quello che più merita di essere seguito nel tempo. Il cammino di riavvicinamento del padre alla famiglia era in corso da tempo, sottotraccia, e la pandemia lo ha probabilmente fatto detonare: la costrizione durante i periodi di lockdown prima e la possibilità dello smart working poi, potrebbero aver segnato un punto di non ritorno, grazie all’aumento significativo del tempo che il padre ha incominciato a passare in casa.

Questo movimento interessa tutte le età dai Millennials in avanti: generazioni forse meno avventurose delle precedenti, ma desiderose di stare di più con i figli e di migliorare la situazione affettiva propria e della prole. E non è proprio il padre di famiglia, come notava poeticamente Péguy, il solo avventuriero del mondo moderno?

Anche il fenomeno recentissimo della Great Resignation, la grande dimissione, che può essere letta dalle nostre parti come l’indisposizione ad accettare lavori totalizzanti, e che qualcuno ha visto come una forma di deriva individualistica e di rinuncia alla dimensione comunitaria della vita in azienda, per Risè può invece esprimere una tensione positiva. E se fosse una richiesta di tempo che prelude alla realizzazione come padri? L’embrione cioè di un desiderio che può rimettere al centro dell’esistenza «gli affetti, la famiglia e la fede, rimossi spesso negli ultimi 50 anni dalle ambizioni economiche e ansie per i diversi tipi di status sociale».
Non è la rinuncia al lavoro, insomma, quello che starebbe andando in scena, ma un poderoso processo di riconquista di quell’equilibrio familiare precedente alla rivoluzione industriale e all’avvento – dopo l’assenza delle figure paterne causato dalle due guerre – di imprese sempre più simili a voraci realtà aziendali che hanno finito per inghiottire ogni attività degli uomini arrivando ad ostacolare «la trasmissione diretta della maschilità».

La tarda modernità del ’900 descritta da Risé è una società inquietante, un mondo in cui le imprese-Grandi-madri hanno contribuito a creare il mito del guadagno e del successo per legare gli esseri umani alla dimensione delle cose, del consumo e dell’appagamento dei soli bisogni materiali, una società popolata da individui gentili, allegri, fintamente buoni, ma fondamentalmente fragili, soli, sradicati e incapaci di vedere la ferita, affrontare la perdita, sopportare il sacrificio, e dunque di elevarsi verso l’alto.

Se la cancellazione del padre è stato il processo con cui l’Occidente ha voluto eliminare l’esperienza di Dio non è detto che ora riportando il padre a casa tornerà anche tutto il resto – e d’altra parte la riscoperta della "famiglia di una volta" dovrebbe saper fare selezione conservando solo le cose buone. Il dato vero è che un po’ ovunque, dagli Stati Uniti all’Europa, oggi si legifera per agevolare il nuovo protagonismo dei padri. Processi che vanno sostenuti e rafforzati: la storia procede per cicli, dunque la decadenza non è un destino ineluttabile, matrimonio e natalità possono ancora rifiorire, la famiglia come gesto d’amore e «dono di sé agli altri» può ancora farsi rivedere. Per ora c’è che, fosse anche per qualche ora di smart working in più, il padre vuole ritornare. E, come sostiene Risé, «il padre non ritorna mai da solo, ma lo segue anche tutto il mondo Famigliare».

Un saggio rilancia una presenza sempre meno significativa​

Il ritorno del padre (Edizioni San Paolo 2022, pp. 220, euro 18,00) è il nuovo libro di Claudio Risé, psicoterapeuta e psicoanalista, già docente di Scienze sociali alle Università di Trieste-Gorizia, dell’Insubria (Varese) e della Bicocca (Milano). Il testo è un’edizione, completamente rivista alla luce delle profonde trasformazioni avvenute in questi anni, di un suo celebre saggio, Il Padre l’assente inaccettabile, uscito sempre per San Paolo nel 2003. Quasi due decenni dopo siamo di fronte a una svolta epocale. Scrive Risé: «Dal punto di vista psicologico il padre porta nella vita umana l’esperienza dinamica del muoversi, dell’andare. Fa dell’esistenza un movimento verso la pienezza con Dio e, allo stesso tempo, dona una liberazione dall’attaccamento, dall’egoistico trattenere e trattenersi, freno di ogni ricerca e divenire». Risé lavora da decenni sulla psicologia del maschile e sui problemi derivanti dalla crisi della figura paterna. Su questo tema ha pubblicato per San Paolo anche Il mestiere di padre. Tra i suoi testi più noti, Essere Uomini e Parsifal (Red edizioni), Cannabis. Come perdere la testa e a volte la vita (San Paolo 2007); Il maschio selvatico/2 (San Paolo 2015); Donne selvatiche (con M. Paregger, San Paolo 2015).

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