giovedì 21 marzo 2019
In un Paese già fortemente diviso, il clima nelle ultime ore si è fatto incandescente. Spariti in extremis i cartelloni della discordia. «È a rischio la libertà accademica»
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Sulla strada che dall’aeroporto porta verso la capitale ce ne sono ancora. Perché se a Budapest i cartelloni della discordia, quelli che avevano provocato la levata di scudi del Partito popolare europeo (Ppe), sono spariti, in periferia e nei piccoli centri di provincia, roccaforti del premier Viktor Orbán, il cittadino deve stare in allerta. «Hai il diritto di sapere cosa sta facendo Bruxelles!», recita lo slogan che incornicia i volti sghignazzanti di Jean-Claude Juncker e del miliardario ungherese George Soros, finanziatore della Open society foundation e di progetti legati al multiculturalismo e all’immigrazione, e quindi obiettivo numero uno della propaganda del partito al potere Fidesz.
In un Paese in cui già alla vigilia del voto del Ppe non mancavano tensioni e spaccature, il clima nelle ultime ore si è fatto incandescente. Tanto che dall’opposizione non sono mancate bordate contro l’«autoritarismo» del partito del premier «finalmente svelato» in Europa.

Negli uffici di Momentum, piccolo partito pro-Ue, la vicepresidente Anna Donath ammette però che la «sospensione concordata» di Fidesz dal Ppe è «una soluzione politica per non risolvere il problema, mentre sarebbe servito un messaggio ancora più chiaro come l’espulsione». Secondo Donath «alle elezioni europee gli ungheresi seguiranno i loro valori: il voto darà un’opportunità ai partiti più piccoli di mostrare che in molti vogliono un’alternativa». «Le generazioni più giovani – prosegue, mentre è continuo il via vai degli attivisti – hanno già beneficiato così tanto dell’appartenenza all’Unione Europea, ognuno di noi ha la sua storia personale di cosa significa essere cittadini europei. Non possiamo tornare indietro».


«Orbán ha distanziato Fidesz dai valori del Ppe: il governo ungherese non rispetta quei fondamenti democratici che rappresentano valori comuni europei»: Petra Bárd insegna Diritto costituzionale europeo in quella Central European University sostenuta da Soros che la nuova legge sulle università straniere voluta dal governo sta “forzando” al trasferimento da Budapest a Vienna. Il Ppe aveva chiesto il salvataggio dell’ateneo, la cui sede in Nador utca dista dalla sede del Parlamento di Budapest poche centinaia di metri, ma Orbán ha tirato dritto. «L’Ungheria oggi è un Paese che non rispetta la libertà accademica, un Paese dominato dalla politica del risentimento – prosegue Bárd –. Vede i miei studenti? Non apprezzano l’illiberalismo e molti di loro hanno in programma una carriera all’estero. Lo definirei un “bran drain” volontario, offriamo ad altri Paesi le nostre menti migliori».


Al potere dal 2010, dopo la schiacciante vittoria nelle elezioni dello scorso anno Fidesz detiene una “supermaggioranza” che gli ha consentito anche importanti modifiche costituzionali. Il clima è da campagna elettorale permanente, favorito, secondo l’opposizione, dalla riduzione dei media indipendenti. I continui richiami alla difesa dei valori cristiani e l’apertura a politiche di sostegno alle famiglie si scontrano con la chiusura ai migranti, con la stretta sull’equilibrio dei poteri nel sistema giudiziario e con le nuove leggi sul lavoro definite dall’opposizione “leggi schiavitù”, che hanno provocato manifestazioni di piazza.


Balázs Hidvéghi, già deputato e membro di Fidesz da 30 anni, oggi è il numero uno della comunicazione del partito, membro della ristretta cerchia di Orbán. Ci riceve negli uffici parlamentari, la vista sul Danubio in una giornata insolitamente piena di sole è impareggiabile. «Quello con il Ppe è stato e sarà un dibattito sul futuro dell’Europa, su due visioni diverse. Certo non avremmo accettato una sospensione come atto unilaterale – sottolinea –. Lo scambio è e sarà basato sul mutuo rispetto, ma certo non possiamo fare compromessi sulla difesa dei tradizionali valori cristiani europei e sullo stop all’immigrazione». Nessuna contraddizione tra queste due posizioni? «No, perché non stiamo chiudendo le porte ai veri profughi, ma ai migranti economici. Chi ha bisogno deve essere aiutato, ma nei Paesi di origine. Il Ppe è importante per noi, ma non più importante dell’implementazione delle decisioni del popolo ungherese. Il nostro governo ha dimostrato che l’immigrazione può essere fermata, come l’Italia ha mostrato che può essere fermata in mare. Sinistra e Ong di Soros stanno solo cercando di forzare l’agenda politica proponendo il multiculturalismo, senza peraltro avere mai chiesto alla popolazione se era d’accordo con questo approccio. Ma in Ungheria la risposta è stata molto chiara».


Róza Hodosán, sociologa, storica attivista per la democrazia ed ex parlamentare liberal, guarda oggi con preoccupazione all’evolversi dello scenario politico. «Sì sono molto pessimista, credo che il regime – parlando con Avvenire lo definisce così – abbia raggiunto il punto di non ritorno. Non somigliamo più ad un Paese europeo democratico, ma alla Russia di Putin: un’autocrazia cleptocratica». Parole dure, toni perentori. In fondo più di uno, in questa dolce e fresca serata di Budapest, dal Ppe si è sentito inevitabilmente “tradito”.

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