mercoledì 4 giugno 2025
Rispetto al passato, i progettisti tengono sempre meno conto dei costi di manutenzione degli edifici. Dalla Chiesa esempi virtuosi
Il Centre Pompidou a Parigi

Il Centre Pompidou a Parigi

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Il Centre Pompidou, inaugurato a Parigi nel 1977, è stato costruito secondo un ardito progetto che ha rovesciato i canoni usuali: tubature e impianti sono esposti all’esterno, a mo’ di ornamento, mentre gli spazi interni presentano superfici libere. Nel 1998, a ventidue anni dall’apertura, dovette essere chiuso per lavori di manutenzione che durarono parecchi mesi: l’assenza di facciate esterne atte a proteggere le sue parti più delicate ovviamente lo ha lasciato particolarmente esposto all’usura del tempo e dei fenomeni meteorici. E oggi si è resa necessaria una sua ristrutturazione completa per la quale si prevede una spesa di 358 milioni di euro: una cifra che la Corte dei conti francese ritiene «insostenibile».

L’investimento per la costruzione originaria era stato di 993 milioni di franchi (equivalenti a oltre un miliardo di dollari attuali) e l’intervento degli anni Novanta aveva richiesto ulteriori 576 milioni di franchi (equivalenti a 140 milioni di dollari attuali). Si può dire che in totale, nel giro di una cinquantina di anni il Centre Pompidou abbia generato una spesa che supera il miliardo e mezzo di dollari. La cattedrale parigina di Notre Dame fu costruita a partire dal secolo XII. Nel 2019 un incendio ne distrusse completamente la struttura lignea del tetto causando anche danni a arredi e vetrate, mentre i muri in pietra hanno resistito. La completa ricostruzione della copertura e il ripristino delle altre parti è costato 700 milioni di euro (775 milioni di dollari): circa la metà della spesa collegata ai primi 50 anni di vita del Centre Pompidou.

Il confronto tra questi due edifici, entrambi di somma rilevanza per la capitale francese, si presta ad alcune considerazioni di carattere generale. Balza all’occhio la relativa fragilità di quello più recente: materiali, strutture e approccio architettonico sono tali da richiedere continue attenzioni e, proporzionalmente alla resa nel tempo, la sua gestione appare enormemente più costosa di quella dell’edificio storico, che ha bensì richiesto un’ingente spesa, ma solo a seguito di un evento catastrofico avvenuto otto secoli dopo la sua fondazione. « Il problema è che l’innovazione tecnologica non sempre viene adeguatamente calibrata sul fattore tempo – nota Giancarlo Paganin, professore di progettazione tecnologica e ambientale al Politecnico di Milano – e sovente neppure i sistemi di certificazione in uso lo prendono in considerazione. In pratica, è difficile sapere quanto possa durare un fabbricato nuovo. Di solito i progettisti non sono sensibili a questa problematica e ancor meno lo sono i committenti. Si pensi che per assicurare un edificio in Francia il sistema prevede un insieme di controlli e pareri tecnici molto più approfondito per le tecniche costruttive innovative rispetto a quelle considerate tradizionali».

In pratica questo vuol dire: degli edifici antichi ci si può fidare ma di quelli nuovi, no. Ed è così perché i materiali e le tecniche costruttive di un tempo erano perlopiù note e tendenti a rispondere a necessità strutturali e abitative essenziali, laddove in particolare dal secondo dopoguerra è prevalsa la sperimentazione di forme, materiali e tecniche diverse, nella ricerca di gesti architettonici intesi a distinguersi, ma senza prendere in considerazione la durabilità delle realizzazioni né la loro manutenibilità. Infatti ogni edificio si compone di tante parti diverse (strutture portanti, impianti, tamponature, rivestimenti esterni…) che hanno necessariamente bisogno di essere conservate, aggiornate, ripristinate. Pena: la sua perdita di valore, la sua fatiscenza, la sua pericolosità (si pensi a quante strutture mal conservate hanno dato luogo a tragici incidenti, quali il crollo del viadotto Morandi a Genova nel 2018). Se di solito la preoccupazione di investitori e costruttori è di realizzare profitti rapidamente, raro è il caso di chi si preoccupa di che cosa accadrà in futuro. E invece proprio questo sta a cuore alla Chiesa che, abituata a mantenere le proprie costruzioni nei secoli e consapevole della necessità di doverlo fare in economia, si è posta il problema di come rendere durevoli e facilmente gestibili anche gli edifici più recenti. E su tali tematiche ha aperto da tempo una discussione.

Come ricorda monsignor Giuseppe Russo, oggi vescovo di Altamura-Gravina-Aquaviva delle Fonti: «Già nel 2009, quando ero direttore del Servizio nazionale per l’edilizia di culto della Conferenza Episcopale, tenemmo a Napoli il convegno “La manutenzione programmata per l’edilizia di culto”: il primo frutto del lavoro svolto dai professori Giancarlo Paganin e Cinzia Talamo del Politecnico di Milano, che su nostro incarico hanno studiato un sistema di monitoraggio degli edifici inteso anche a fornire linee guida su come realizzare chiese nuove facilmente gestibili. Non è solo un problema di contenimento dei costi: mi ha sempre colpito come i luoghi influenzino il benessere delle persone. Se un edificio è ben pensato, armonico nelle forme e nelle proporzioni e ben tenuto, ci si sta bene. Ambienti decadenti invece intristiscono e a volte capita che, se mal costruiti e mal gestiti, già dopo pochi anni si rivelino inospitali, se non addirittura pericolosi. Questo vale per le chiese come per qualunque altro luogo. Di qui che sia necessaria una visione olistica di quanto si desidera costruire e del modo in cui questo interagisce con le persone: si pensi agli effetti derivanti dalla luce, dall’acustica, dall’atmosfera cromatica degli ambienti. Per ottenere un buon risultato serve una corretta programmazione: dal concetto di partenza, alla scelta del sito, alla vera e propria progettazione, alla gestione, alla fine del ciclo di utilizzo: il processo edilizio deve tenere conto di tutto questo insieme. Da tale visione globale è scaturito l’aggiornamento del sistema di organizzazione dei concorsi per i nuovi edifici di pertinenza della Chiesa italiana. Che, oltre a prendere in considerazione tutto il loro ciclo di vita, comincia col coinvolgimento delle persone cui l’edificio è destinato: nel caso delle chiese, la comunità parrocchiale. Lo scopo è che ciascuno sia partecipe del processo realizzativo e se ne senta responsabile, non un fruitore passivo».

Si può dire che quello fornito dalla Chiesa italiana per i propri edifici sia un modello paradigmatico di sostenibilità? « Direi di sì – insiste monsignor Russo, che tra i suoi titoli annovera quello di ingegnere civile – e sarebbe auspicabile che per tutti gli edifici pubblici si seguisse una programmazione simile. Sostenibilità non è solo questione di risparmio energetico o riciclabilità dei materiali, aspetti peraltro di fondamentale importanza, ma deriva dall’insieme di buone pratiche le quali sole permettono di far sì che il singolo edificio sia apprezzato e condiviso, e che sia ben gestibile pur col trascorrere del tempo. Solo così sarà sempre aggiornato. E solo così si terrà viva un’interrelazione positiva tra persone e ambiente costruito».

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