martedì 27 settembre 2022
Molte imprese vogliono rafforzare l’impegno sociale verso le proprie persone (67,5%) e verso la comunità locale e la filiera produttiva (63,1%). Tante le buone pratiche
Con il welfare migliora anche il senso di appartenenza

Con il welfare migliora anche il senso di appartenenza - Archivio

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In questo periodo di crisi, le imprese si sono dimostrate vicine alle famiglie e attente ai bisogni dei dipendenti promuovendo diverse iniziative di welfare aziendale. Come infatti emerge dall’indagine Welfare Index PMI 2021, il 42,7% delle imprese che hanno attuato iniziative a sostegno del benessere dei propri dipendenti nel 2020 e 2021, intende mantenerle anche in futuro e due imprese su tre hanno dichiarato di voler addirittura rafforzare l’impegno sociale verso le proprie persone (67,5%) e verso gli stakeholder esterni, ovvero la comunità locale e la filiera produttiva (63,1%). Inoltre, si evince che le iniziative di welfare aziendale hanno effetti positivi sulla produttività del lavoro (29,4%), sulla soddisfazione dei lavoratori e sul clima aziendale (34,5%), sulla fidelizzazione dei dipendenti (31,1%), sull'immagine e sulla reputazione dell'azienda (33,5%). Il welfare aziendale conferma il suo ruolo chiave in un contesto sociale e economico condizionato da grandi cambiamenti che hanno coinvolto anche il mondo del lavoro negli ultimi due anni. Questo il dato di fondo che emerge dall’indagine sui comportamenti delle aziende dell’Osservatorio Welfare a cura di Edenred. L’analisi di basa su un bacino di 530mila utenti e circa 3 mila imprese (dati 2021).

Il welfare aziendale e l’empowerment femminile. Valorizzare la figura professionale della donna e favorire la conciliazione dei tempi di vita-lavoro si rispecchia nei servizi offerti: dai servizi legati al people care, alla genitorialità, al servizio di baby-sitting, di assistenza agli anziani o a familiari non autosufficienti. Ma non solo, anche tutti i servizi legati all’istruzione e alla salute che testimoniano il forte valore sociale del welfare.

Nuove politiche e attenzione alle modalità di lavoro smart. Se da un lato il welfare sociale è in grado di sostenere la figura della donna e, più in generale le famiglie, ha un ruolo rilevante anche nella dimensione più ricreativa legata al tempo libero. I giovani sono sempre più attenti alle politiche aziendali smart che propongono oltre alla retribuzione anche benefit di vario tipo. Il welfare è sempre più uno strumento in grado di attrarre i talenti: la prospettiva di un contesto lavorativo fondato sul concetto di benessere è tra i fattori importanti di attrazione verso i giovani talenti, l’offerta di benefit nella scelta dell’azienda ha peso per oltre il 50% dei rispondenti.

Il welfare aziendale come misura di integrazione al reddito anche durante la pandemia: i fringe benefit per la ripartenza. Si consolida la performance dei fringe benefit che nel 2021 rappresentano la tasca di spesa più consistente con circa il 34% complessivo dei consumi di welfare soprattutto in buoni spesa e buoni carburante. Tendenza di crescita che si era già evidenziata nel 2020 e che attiene soprattutto all’intervento legislativo nei due anni di riferimento che ha raddoppiato, con una misura provvisoria e circoscritta dal punto di vista temporale, i limiti di spesa dei fringe benefit portandoli a 516,46 euro. Tale misura si è dimostrata una leva significativa di sostegno al reddito e ai consumi in un contesto di marcata difficoltà economica. Per le fasce più giovani del campione (entro i 39 anni) emerge in modo chiaro il maggiore interesse di spesa del proprio flexible benefit in beni fringe e servizi: entro i 30 anni, i soli fringe benefit cubano il 65% circa della spesa complessiva. Ulteriore conferma sul ruolo del welfare viene dal cosiddetto credito welfare procapite, ossia le disponibilità di spesa in welfare da parte dei dipendenti che anche nel 2021 è pari a circa 850 euro, importo in linea con gli 850 euro del 2020 e gli 860 euro registrati per il 2019. Dato importante anche in relazione al decremento del reddito disponibile delle famiglie come segnalato da Banca d’Italia.

Cresce di poco il welfare contrattato con i sindacati ma la scelta unilaterale delle aziende è sempre prevalente. Bene la conversione del premio di risultato monetario in welfare. Sul piano delle fonti di finanziamento nel 2021 si evidenzia un doppio consolidamento delle tendenze di questi anni. Il primo attiene alla conferma della scelta unilaterale da parte delle aziende nell’implementazione di piani di welfare che rappresentano il 73% circa delle somme complessive che dispongono i dipendenti. Segue il welfare aziendale contrattato con accordo sindacale e vincolato al premio di produttività con il 20,6% (in crescita rispetto al 2020), e chiude al 6,7% l’erogazione prevista nei contratti nazionali (CCNL). Il secondo consolidamento attiene alla costante crescita della conversione del premio di produttività monetario in misure di welfare aziendale che evidenzia una crescita dal 19% dell’anno precedente fino al 21% circa della spesa nel 2021.

Il welfare sociale conferma il suo peso. Il macro aggregato del welfare sociale composto dalla spesa per Istruzione, Previdenza, Assistenza Sanitaria e Assistenza ai Familiari rappresenta una quota del 47,8% del totale della spesa welfare, in lieve contrazione rispetto all’anno precedente. Il minimo calo della spesa in welfare sociale è da collegarsi direttamente alla crescente quota di spesa straordinaria nei due anni della pandemia destinata ai fringe benefit. Nonostante ciò la quota di welfare sociale assorbe il 50% della spesa complessiva.

Nuove frontiere del welfare aziendale: cresce il trend della sostenibilità. La costante crescita e diffusione del welfare aziendale si interseca con i nuovi trend del mondo del lavoro e dell’impresa, come la sempre maggiore importanza della sostenibilità e la conseguente implementazione di piani di welfare che incentivino comportamenti virtuosi dal punto di vista sociale e civile come per esempio nella riduzione dei consumi di carta, delle emissioni di inquinanti e cosi via. Si pensi, poi, al grande tema della mobilità sostenibile e al mobility management quale argomento di sviluppo in una prospettiva di welfare aziendale. Come dato generale sulle macro/categorie il gradimento più alto delle aziende va alle misure generali di sostegno al reddito con l’81,7% delle indicazioni. Tra i più alti gradimenti sulle misure specifiche di welfare, invece, spiccano i fringe benefit con l’87% delle aziende che considerano questo strumento di valore assoluto. L’88% chiede, inoltre, che il raddoppio del tetto di esenzione sia rinnovato anche per il 2022. Da sottolineare, poi, una forte domanda di welfare familiare anche a sostegno della natalità. Il 92% del campione afferma che la spesa welfare di questo capitolo debba essere rafforzata e aumentata. Dal punto di vista, invece, delle nuove frontiere del welfare aziendale cresce il trend della sostenibilità, seppur ancora in fase iniziale: il 12,5% ha attivato misure di mobilità sostenibile e il 37,5% sta pensando di farlo.

Anche l'intelligenza artificiale a supporto del welfare

Lavorare sul coinvolgimento e il benessere delle persone favorendo e stimolando l'interazione tra i collaboratori è uno dei capisaldi di HRCOFFEE (https://www.hrcoffee.it), la HR-Tech Company, specializzata nello sviluppo di software per il People Management e People Analytics, che ha elaborato nuovo modello di gestione del personale basato su un approccio people based (persone al centro), che consente di conoscere e mappare il sentiment e le esigenze più profonde dei dipendenti, grazie alla tecnologia “Ibm Watson”. «Grazie a piattaforme e app pensate per le persone otteniamo una considerevole riduzione del tempo investito per svolgere attività routinarie, tempo che potrà essere impiegato per un altro task lavorativo o semplicemente per la propria vita personale. La tecnologia può inoltre supportare i manager nell’arduo compito di definizione delle buone pratiche per creare un ambiente di lavoro sereno, sostenibile e soprattutto in linea con le esigenze delle proprie persone. Nello specifico i People Analytics, consentono di comprendere lo stato attuale dell’impresa e di individuare le azioni necessarie per migliorare il grado di welfare interno, partendo dai reali bisogni delle persone che vivono l’azienda», spiega Ylenia Tattoli, People Consultant di HRCOFFEE. La tecnologia Ibm Watson alla base del modello di gestione del personale people based, lanciato da HRCOFFEE è flessibile, capace di soddisfare le richieste del cliente e di modellarsi in base alla cultura organizzativa e all’utilizzo da parte dei dipendenti. La piattaforma ha infatti una base comune per tutti ma prevede la possibilità di attivare funzionalità differenti a seconda della strategia aziendale. L’emergenza sanitaria vissuta in questi ultimi due anni ha cambiato le esigenze e i desideri delle persone, ha disegnato nuovi paradigmi lavorativi e ha fatto emergere nuove consapevolezze da parte non solo dei lavoratori bensì delle aziende stesse, che si sono trovate a dover mettere in atto strategie per garantire il benessere e la sicurezza dei propri dipendenti, in un momento di grande incertezza ed instabilità, grazie anche all’adozione di strumenti tecnologici per l’analisi del sentiment. Dall’esperienza di HRCOFFEE emerge che le aziende che hanno implementato sistemi di intelligenza artificiale per la gestione delle risorse umane hanno poi attuato anche politiche interne a sostegno del welfare aziendale. In questo contesto però la tecnologia non è sufficiente perché un ruolo centrale e determinante per il miglioramento del benessere in azienda è rappresentato dal coinvolgimento dei dipendenti perché il welfare è per le persone.

Le richieste dei lavoratori in tempo di crisi

I lavoratori desiderano maggiore flessibilità nella loro vita lavorativa: smart working, il passaggio a una settimana lavorativa di quattro giorni, organizzazione personalizzata delle ore e del luogo di lavoro. Sono solo alcune delle tendenze che emergono da People at Work 2022: A Global Workforce View l’annuale survey redatta dall’Adp Research Institute. L’indagine si è svolta su circa 33mila lavoratori in 17 Paesi, di cui circa 2mila in Italia. Il 56% degli intervistati sarebbe d’accordo di passare a una settimana lavorativa di quattro giorni, arrivando così a lavorare dieci ore al giorno pur di avere un giorno libero in più a settimana. «Alcuni datori di lavoro stanno già introducendo la settimana lavorativa di quattro giorni, un cambiamento epocale. Se riescono a farlo funzionare assicurando che le esigenze aziendali continuino a essere soddisfatte, potrebbe essere vantaggioso per tutti - specifica Marisa Campagnoli, Hr Director Adp Italia -. Non molto tempo fa, idee come adottare un orario flessibile diffuso o consentire ai dipendenti di condensare le proprie ore in quattro giorni avrebbero potuto essere derise. Ora meritano una riflessione seria, soprattutto se la concessione di richieste di salari più elevati non è un'opzione praticabile». Il 35% accetterebbe infatti una riduzione della retribuzione se ciò significasse migliorare il proprio equilibrio tra lavoro e vita privata, anche senza nessuna modifica delle ore lavorative. «Il lavoro ibrido e quello a distanza sono ormai due modalità professionali consolidate, anche se non è ancora ben chiaro quanto siano destinate a durare. Quel che invece si è affermato definitivamente sono la fusione tra casa e luogo di lavoro e l'erosione del modello classico di orario d'ufficio dalle 9 alle 17. Questo ha implicazioni a lungo termine per l'organizzazione della vita dei dipendenti, per il tipo di lavoro che svolgono e il modo in cui lo svolgono, e di conseguenza per il mercato del lavoro - dichiara Campagnoli -. Tra sospensioni e re-imposizioni dei lockdown in un momento in cui la popolazione è ancora vulnerabile, emerge una questione controversa: è possibile chiedere o costringere i dipendenti a tornare in ufficio anche se non è necessario? Per molti potrebbe essere un punto cruciale, se non la proverbiale goccia che li spingerebbe a licenziarsi (il 45% degli intervistati)». Da sottolineare come la metà dei dipendenti intervistati (54%) afferma di aver preso in considerazione di cambiare lavoro negli ultimi 12 mesi. Di questi, uno su quattro (21%) ha pensato di cambiare settore, il 14% di richiedere un anno sabbatico. Il 13% ha pensato di aprire un'azienda, di prendersi una pausa temporanea dal lavoro (12%) o di lavorare part-time (13%), mentre uno su dieci ha considerato l'ipotesi del pensionamento anticipato (11%). Sono più le donne che desiderano passare al part-time (15% contro l’11% degli uomini). Inoltre i lavoratori hanno grandi aspettative di ricevere un aumento di stipendio e sono pronti a spingere i propri datori di lavoro a ottenerlo, poiché il costo della vita è in notevole aumento. Mentre inflazione e caro vita gravano sulla vita quotidiana degli italiani, la situazione delle retribuzioni nel Paese è allo stallo. L'Ocse - ha analizzato la dinamica degli stipendi medi nell’arco di 30 anni, dal 1990 al 2020 - ha rilevato che l’Italia è l’unico Paese europeo in cui le retribuzioni sono calate anziché aumentare: -2,9%. Secondo il sondaggio di Adp, il 76% dei lavoratori a livello globale afferma che probabilmente chiederà un aumento di stipendio nell’arco di 12 mesi, in Italia lo ha dichiarato il 65% degli intervistati, il 68% degli uomini e il 62% delle donne. I risultati arrivano in un momento in cui il costo della vita sta aumentando rapidamente in molte parti del mondo a causa dell'elevata inflazione e dopo due anni di interruzione del lavoro legata alla pandemia. Circa la metà dei lavoratori italiani (41%) prevede di ottenere realmente un aumento di stipendio nei prossimi 12 mesi (44% gli uomini e 38% le donne) e il 21% prevede una promozione (24% uomini contro il 17% delle donne) o un bonus (25%, gli uomini sono al 27% mentre le donne al 24%). Emerge chiaramente come anche in questa situazione le donne nutrano aspettative inferiori a quelle degli uomini. Nel complesso, il 62% dei lavoratori italiani afferma che la retribuzione è il fattore più importante per loro in un lavoro. Il 23% ha dichiarato di non essere soddisfatto, per diversi motivi, della propria condizione lavorativa attuale (più le donne con un 24% che non gli uomini al 21%). Di questa fetta, il 36% lamenta di avere avuto un aumento del lavoro e delle responsabilità che non è però stato accompagnato da un aumento di salario (41% gli uomini e 30% le donne). Uno dei motivi per cui i lavoratori possono ritenere di meritare un aumento di stipendio è il numero di ore extra di lavoro non retribuito che molti di loro svolgono, per esempio iniziando presto, rimanendo fino a tardi o lavorando durante le pause. In media, i lavoratori italiani lavorano ogni settimana 6,1 ore aggiuntive di straordinario non retribuito (6,3 gli uomini contro 5,7 delle donne). Nel periodo pre-Covid (sondaggio realizzato da Adp nell’ottobre 2019) le ore settimanali non pagate erano “solo” quattro ore.

Nel mondo post-pandemia, tuttavia, stiamo assistendo a una netta disparità tra le percezioni delle aziende e le reali sensazioni dei dipendenti a lavoro. Proprio su questo tema si concentra Disconnect to Reconnect, la nuova ricerca di Adecco che indaga il ruolo delle aziende nella tutela del benessere dei dipendenti. Difatti, mentre circa tre aziende su quattro (73%) confermano che offrire un sostegno al benessere dei propri dipendenti sia importante per migliorarne il coinvolgimento e la soddisfazione, in realtà il 60% dei dipendenti in Italia (contro il 45% a livello globale) non ritiene che la propria azienda offra un supporto in termini di benessere. Mantenere un sano equilibrio tra lavoro e vita privata è una base fondamentale per la soddisfazione personale e professionale. Nel mondo digitale iperconnesso in cui viviamo, però, disconnettersi dal lavoro è più difficile di quanto non fosse per le generazioni precedenti. Dalla ricerca è infatti emerso che, a livello globale, il 45% dei dipendenti lavora dopo l’orario di lavoro in media tre giorni a settimana e il 60% controlla le proprie e-mail al di fuori dell’orario di lavoro quattro giorni a settimana. Soprattutto, sono le nuove generazioni, più esperte di tecnologia, ad avere maggiori difficoltà di disconnessione: il 61% lavora e il 69% controlla le e-mail fuori dall’orario di lavoro. Ciò comporta ripercussioni anche sul livello di tensione fisica dei dipendenti, che nel 68% dei casi dichiarano di sentirsi stressati e ansiosi. Un disagio che risulta chiaramente percepito dalle aziende, le quali affermano di aspettarsi un aumento sia del turnover dei dipendenti (+47%) che dei congedi per malattia (39%) nei prossimi sei mesi. Il problema del corretto bilanciamento tra lavoro e vita privata sembra trovare origini antecedenti alla pandemia: infatti, il Covid sembra aver avuto un impatto negativo sul livello di stress per soli tre lavoratori su dieci. Ciononostante, i dati della ricerca hanno reso evidente che la pandemia abbia portato a una rivalutazione dell’equilibrio tra lavoro e vita privata, grazie all’utilizzo di modalità di lavoro ibride e più flessibili. Un fattore di cui le aziende devono tenere conto per riuscire a mantenere il livello di soddisfazione dei propri dipendenti, limitare il turnover e incrementare la produttività. Allo stato attuale, in Italia solo un'azienda su tre propone iniziative mirate alla tutela del benessere dei lavoratori, che oggi richiedono maggiore tempo libero per stare insieme ad amici e famigliari (46%), fare sport (36%) e rilassarsi, per esempio ascoltando musica (32%).


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