giovedì 26 luglio 2012
COMMENTA E CONDIVIDI
Giuseppe Camadini è stato per me figura di riferimento. In svariate occasioni, dovendo scrivere di Banche & Banchieri, e in specie della cosiddetta finanza bianca, andavo ad abbeverarmi. Pur di riservatezza estrema, mai negava un assenso, un dissenso, una precisazione carichi di ansie etiche sul gigantismo del sistema creditizio italiano che ai suoi occhi pareva avere perso la bussola.L’ultimo incontro risale alla primavera del 2011 mentre stavo dando dei tocchi finali alla biografia di un suo carissimo amico, il veronese Giorgio Zanotto, artefice di quella grande istituzione che è il Banco Popolare, ora alle prese con la crisi epocale che nessuno risparmia. Il «Dottor-notaio», come mi piaceva chiamarlo per l’atteggiamento un po’ da medico umanista, un po’ da implacabile censore-garante, m’offrì the e biscottini avanti di condurmi, con evidente orgoglio, a visitare la nuovissima sede della Fondazione Paolo VI, a Concesio, laddove la pianura bresciana prende ad inerpicarsi nella Val Trompia. Terra camuna.Annidata, stimolato da un buon bicchiere di vino genuino, a colazione suo ospite nel Centro Pastorale Paolo VI ancora sistemato in un Seicentesco palazzo gentilizio bresciano, il Gran Banchiere, si concesse qualche confidenza. Umana, personalissima, carica di ethos. Con il nuovo secolo e l’introduzione dell’euro, la finanza annunciava di avere imboccato l’autostrada dello sviluppo ininterrotto. «Quest’orgia consumistica ci porterà all’Inferno», disse. Aggiunse pensoso, quasi ad ammorbidire quell’infausta premonizione: «Dobbiamo tornare, noi cristiani, alle origini. Il danaro, è un mezzo, non un fine. Il Bene Comune ha da essere il nostro riferimento». Si fece umile: «Forse sono troppo vecchio...». Aveva già patito un paio di infarti, e tuttavia proseguì, instancabile.Camadini, forse proprio perché camuno cioè erede della saggezza antica del servire gli uomini e la Chiesa, né moglie né figli, attraverso il voto di castità nutrì fin dalla giovinezza tre grandi amori: per la sua terra (sempre tenne aperto lo studio notarile in Valle, anziché in città), per il beato Giuseppe Tovini che ebbe un ruolo decisivo nella Fondazione del Banco Ambrosiano sul finire dell’Ottocento. E con Giovan Battista Montini, futuro Paolo VI, al quale si mise a disposizione per la sua integerrima competenza nel risolvere alcuni dei nodi che già allora, in epoca Marcinkus, affliggevano le finanze vaticane.Rievocando l’«amico Giuseppe» sono colto da un dubbio: gradirebbe un epitaffio? Nell’archivio, trovo una pennellata d’immagine: «Non compare, non appare...». Straordinario. In un’epoca in cui i banchieri dedicano la maggior parte del loro tempo a dichiarazioni, interviste, spesso sconfinanti in vaniloqui autoreferenziali od autoassolutori, Camadini faceva del silenzio virtù. Eppure a scorrere gli annuali bancari lo si trova in una miriade di Consigli d’amministrazione. Nell’ultimo incontro, azzardai: «Come si sente in quei posti?». Allargò le braccia: «Un po’ in croce, ma c’è anche tanta brava gente». Saltò sui gomiti: «Crede al diavolo? Penso che molto di quanto succede, ed al peggio che verrà, discenda dal Maligno. Finché sono vivo però non lo scriva. Farei peccato».Caro Giuseppe Camadini, monaco banchiere indimenticabile t’avessero ascoltato! In oltre mezzo secolo di impegno lei ha remato contro corrente, talvolta inascoltato financo dagli amici più vicini. Sosteneva che la banca allontanandosi dalla società, dall’economia reale, dal territorio rischiava di imboccare un vicolo cieco, una strada senza ritorno. I fatti stanno dimostrando che la sua non era visione retrodatata, paleoconsumistica. Sennonché Camadini era timido, perfino schivo. All’ultima stretta di mano, in quel di Concesio, ebbe a sussurrarmi: «Anche i banchieri che si pretendono cristiani dovrebbero pregare di più. Provi a scriverlo, se ne ha il coraggio».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: