giovedì 14 aprile 2016
Mix delle fonti, nodo Stato-Regioni e consenso sulle opere i fattori-chiave.
LA RICERCA Fotovoltaico: un boom che l’Italia non sa usare
Tre punti per il dopo-referendum
COMMENTA E CONDIVIDI
 E il 18 aprile, da dove si riparte? È sbagliato ridurre il referendum sulle trivelle a una questione (solo) di quorum, perché tutte le parti in causa che in queste settimane si sono date battaglia, sono ben consapevoli che la partita per l’energia dell’Italia comincerà il giorno dopo. In gioco c’è molto di più del futuro di 35 concessioni legate alle piattaforme offshoredelle compagnie petrolifere, solo 26 delle quali produttive e riguardanti più le estrazioni di gas che di greggio. C’è innanzitutto, e ancora una volta, un’idea di Paese e di sviluppo legata all’energia, che neanche le consultazioni precedenti sul nucleare e sull’acqua sono riuscite a ridefinire. E mentre i quesiti referendari si concentrano, con i piani di trivellazione già in essere, su una produzione equivalente del 27% di metano e del 9% di petrolio, può essere utile ricordare che lo scenario di riferimento intorno a noi è già profondamente cambiato, per via del crollo del prezzo dell’oro nero e per la contemporanea crescita delle fonti alternative. Nel 2015 la fattura energetica del-l’Italia dovrebbe registrare un calo di circa 10 miliardi l’anno, con un totale stimato di 34,7 miliardi contro i 44,6 dell’anno prima. La riduzione avverrà in un contesto di consumi in crescita del 3%, dopo le difficoltà degli anni passati. Non è l’unico dato rilevante: di fatto, anche la dipendenza dall’estero del nostro Paese dovrebbe assestarsi al 76%, oltre sette punti in meno rispetto a un decennio fa, grazie anche all’apporto crescente, nel mix degli approvvigionamenti, dell’energia pulita, con l’Italia che guarda all’ambizioso traguardo del 27% nel 2030. Posizioni da avvicinare «Gli obiettivi non mancano, la strategia non può che essere quella fissata dalla Commissione europea, nei vincoli ambientali riscritti all’ultima Conferenza di Parigi. La vera assente è la politica industriale» sottolinea Antonio Sileo, ricercatore dello Iefe Bocconi, tra i firmatari dell’appello sottoscritto da un gruppo di accademici contro il 'sì' al referendum. «È vero, su questo fronte non c’è nulla, ma prima ancora che sull’energia e sull’industria sarebbe necessario avere una strategia di lungo respiro per affrontare i cambiamenti climatici» aggiunge Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente, schierato a favore del quesito di domenica. Immaginare quel che accadrà dopo è in realtà un esercizio che avvicina molto più di quel che sembra le posizioni oggi sul campo. Già sin d’ora, infatti, sono individuabili tre terreni di confronto possibile per chi, sinora, si è mosso su sponde opposte: l’accelerazione sulle fonti rinnovabili, da intendere in modo complementare agli idrocarburi; la riapertura del negoziato tra Stato e Regioni sulle infrastrutture energetiche; la necessità di un dibattito pubblico con i cittadini per superare i veti reciproci. «Le istanze del territorio non vanno mai sottovalutate» spiega Sileo e il riferimento è contemporaneamente alla capacità dimostrata dagli enti locali di mobilitarsi a difesa dell’ambiente e insieme alla necessità di superare l’impasse provocata dalla riforma del titolo V, che mette Regioni e Stato centrale sullo stesso piano. «Va detto che col prossimo referendum costituzionale – ricorda Zanchini – la competenza in materia di energia tornerà in capo allo Stato centrale. In termini strategici, si tratta di una visione giusta e condivisibile: come Legambiente, non pensiamo affatto che ogni territorio debba avere voce a sé, quasi l’Italia sia una somma di feudi. Neppure in Francia il governo centrale è più in grado di imporre delle decisioni, senza prima chiedere una condivisione da parte delle comunità locali». Il moltiplicarsi dei 'no' Il riferimento è alla nascita dell’Autorità per il pubblico dibattito, che vide la luce Oltralpe una decina d’anni fa, dopo che tutti i sindaci si opposero alla costruzione della linea ferroviaria del Tgv nel Mediterraneo. Anche il nostro Paese si prepara adesso all’istituzione di un modello simile, «perché i territori nei limiti del possibile vogliono poter contare e soprattutto non essere scavalcati » continua il ricercatore della Bocconi. All’orizzonte si intravede la minaccia che il «no» alle trivelle, oggi e domani, possa estendersi anche all’eolico, alle biomasse, al fotovoltaico. «Bisogna fare attenzione alle dinamiche che si possono innescare, che oggi mettono nel mirino determinate lobby e un domani potrebbero riguardarne altre» è la preoccupazione che si coglie tra gli addetti ai lavori, in riferimento soprattutto ai produttori di energia verde. È il nodo di una politica industriale ed energetica fatta col consenso di tutti, che tenga in eguale considerazione l’impatto delle infrastrutture da fare sull’ambiente, l’indotto prodotto sull’economia locale e i rischi legati a mancati investimenti su formazione e know how. «La parola chiave del futuro è trasparenza ed è quel che andiamo chiedendo da tempo al governo – argomenta Zanchini –. Nessuno dice che si debba puntare tutto su una sola fonte di approvvigionamento, penso ad esempio che dentro questa grande transizione una coesistenza tra fossili e rinnovabili sia possibile. Il punto è un altro: accelerare su tutto, dalla riduzione delle emissioni di Co2 al 40% entro il 2030 fino alla tassazione degli idrocarburi». «D’ora in poi, è giusto che ciascuno si faccia carico di ciò che produce, dal gas al petrolio. Per come lo produce in termini ambientali e per il contributo che dà all’economia» concorda Sileo. È finito il tempo delle contrapposizioni, il 18 aprile è domani.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: