giovedì 7 marzo 2013
​Per il giuslavorista la riforma non ha reso più flessibili i licenziamenti, divenuto anzi assai farraginosi. Resta ampia la soggettività del giudizio che ricade poi nell’ambito del reintegro o del risarcimento
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Michele Tiraboschi, giuslavorista, docente universitario, si può fare un bilancio dell’impatto della riforma Fornero in materia di licenziamenti e processo del lavoro?È certamente presto per un’analisi di impatto della riforma e tuttavia si può già registrare, sia tra gli esperti che nei primi pronunciamenti della magistratura, un senso generalizzato di incertezza che le norme sul licenziamento hanno prodotto nel sistema giuridico. Sul piano delle intenzioni, la riforma dell’articolo 18 avrebbe dovuto costituire un elemento di flessibilità, attraverso un sostanziale depotenziamento delle ipotesi di reintegrazione. Si ipotizzava cioè di rendere il sistema risarcitorio come il modello generale, lasciando la reintegrazione come ipotesi residuale, sostanzialmente riservata ai casi di nullità radicale e alle ipotesi "odiose" del licenziamento discriminatorio. Il risultato normativo, invece, è un complesso sistema, che si articola in svariate ipotesi e casistiche rispetto alle quali reintegrazione e risarcimento si combinano, alternativamente o cumulativamente a seconda dei casi. Il risultato appare un meccanismo farraginoso che aumenta, piuttosto che diminuire, la discrezionalità del giudice; a tutto svantaggio della effettiva possibilità di avere certezza nei rapporti giuridici e della prevedibilità di costi e tempi per la risoluzione delle controversie. Qualcuno sosteneva che la riforma avrebbe aperto la strada alla "libertà di licenziamento".Non mi pare che il punto sia se il datore di lavoro sia libero o no di licenziare. Egli è comunque libero di licenziare solo se ciò avviene legittimamente. La questione affrontata dalla riforma, semmai, è quale debba essere la sanzione che l’ordinamento dispone per il licenziamento illegittimo. Aggiungerei che la soluzione del contenzioso dovrebbe essere improntata a criteri di celerità e certezza della sanzione in caso di licenziamento illegittimo. Con l’attuale riforma non c’è più la tutela reale nella estensione che prima era "garantita" dall’articolo 18, il che può legittimamente preoccupare il sindacato, e dall’altra parte non c’è ancora semplicità e certezza in uscita dal mercato del lavoro. Anzi, è aumentata sostanzialmente la discrezionalità/soggettività che di fatto viene lasciata al giudice: una riforma che complica considerevolmente l’impianto normativo difficilmente può comportare come conseguenza la fluida oggettività della soluzione delle controversie giudiziarie.Reintegro o risarcimento: quale opzione stanno scegliendo i giudici?Un primissimo e parziale bilancio della giurisprudenza di merito non mi pare che evidenzi tanto una spaccatura della giurisprudenza tra "partito del reintegro" e "partito del risarcimento". Direi piuttosto che si evidenzia nei giudici un comprensibile sforzo di interpretare le nuove norme alla luce e nella continuità con la precedente giurisprudenza di legittimità e di merito. Mi pare comprensibile. Eppure, questo sforzo dei giudici evidenzia il fatto che le diverse ipotesi di illegittimità disciplinate dall’attuale articolo 18 lasciano al giudice un eccessivo onere interpretativo della norma: una soggettività del giudizio che attraverso la qualificazione del fatto nell’ambito delle diverse ipotesi legali, di fatto determina la conseguenza della reintegrazione o del risarcimento.I contenziosi sono destinati ad aumentare o diminuire?Non credo che la norma abbia la reale possibilità di incidere sul volume del contenzioso. Potrebbe forse riuscire nel limitarne la durata, attraverso il sistema della riforma del rito. L’ordinanza che conclude l’istruttoria sulla legittimità del licenziamento, salvo successivo ricorso avverso l’ordinanza stessa, potrebbe forse essere un sistema di velocizzazione del processo, sempre che la magistratura del lavoro sia di fatto in grado di rispondere alle esigenze di celerità a cui la norma aspira.Le misure pensate per evitare il ricorso al giudice stanno funzionando?Parlando del tentativo obbligatorio di conciliazione, non sembra che ci siano difficoltà insormontabili per garantire il servizio da parte delle strutture del ministero del Lavoro. Il problema è se tale strumento possa essere considerato efficace nel dissuadere il ricorso al giudice. L’esperienza passata di tentativi obbligatori di conciliazione in via amministrativa è stata che si mettevano d’accordo solo coloro che lo avrebbero comunque fatto, indipendentemente dall’ausilio amministrativo; negli altri casi si ricorreva comunque al giudice.
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