domenica 13 dicembre 2009
Oltre due milioni di lavoratori utilizzano i «ticket» come sostituto della mensa in circa 100mila esercizi, Ma per i ristoratori i costi stanno diventando troppo alti e i tempi di rimborso troppo lunghi.
COMMENTA E CONDIVIDI
«Pago coi ticket». Oltre due milioni di lavoratori ogni giorno lasciano sulla cassa di ristoranti, bar e focaccerie i colorati tagliandi dei buoni pasto. La moneta di carta che le aziende danno ai lavoratori per la loro pausa pranzo al posto della mensa che soprattutto le piccole imprese non riescono a prevedere in "casa". Così i ticket sono diventati un fenomeno di massa. E nelle vetrine dei bar e dei ristoranti, fra segnalazioni del Gambero Rosso o del Touring Club, sono spuntati gli adesivi delle convenzioni con Ticket Restaurant, Day, Buon Chef, Sodexho, Ristomat e le altre società che «firmano» i buoni pasto. Per la serie «ce l’ho», «mi manca», i lavoratori ogni giorno si muovono fra i locali attorno alla sede di lavoro per accaparrarsi un posto al tavolo. Nati nei Paesi anglosassoni verso gli anni ’60 e diffusi rapidamente in Francia, Belgio e Spagna, in Italia sono stati introdotti nel 1976. Ma si affermeranno solo dagli anni ’90. Non senza nodi critici. Perché dietro quel pezzo di carta, che vale soldi veri, c’è un mondo, più o meno oscuro, di commissioni, partite di giro di pagamenti e lunghe contrattazioni. Con più attori protagonisti. C’è l’azienda che deve garantire il buono al dipendente e cerca di risparmiare al massimo. Ci sono le società emettitrici che li vendono all’azienda e si fanno una concorrenza sfrenata a colpi di sconti. Ci sono i 100mila esercenti convenzionati (il 59% del totale) che ricevono i buoni, pagano commissioni che arrivano anche al 12% e sono spesso costretti a lunghe attese nei rimborsi (ben oltre i 45 giorni). E poi ci sono i lavoratori, i veri fruitori del servizio, che con quel buono spesso riescono a mangiare appena un panino. Ed è il caos. Un mercato senza troppe regole e con una normativa rimasta ferma. Oggi come due anni fa – quando scattò il «No ticket day» – siamo nuovamente sull’orlo della protesta. Dopo il primo tentativo di regolazione organica con il Dpcm del 18 novembre del 2005, annullata da una sentenza del Tar del Lazio in seguito a un ricorso, nulla si è più mosso.Il primo vero problema è il valore del ticket, con la soglia esentasse ferma a 5,29 da ben 12 anni, mentre il valore del pasto è aumentato di oltre il 140%. Oltre questa cifra il buono viene considerato reddito, per cui l’azienda paga i contributi e il lavoratore le tasse. Nel confronto europeo non facciamo una bella figura: il valore esentasse del buono pasto in Portogallo è di 6,70 euro, in Francia 7 e in Spagna ha già toccato addirittura i nove euro. Un valore così basso, come quello italiano, scontenta tutti: lavoratori, esercenti e società. Questo porta aziende più solide e grosse a dare, a seconda dei contratti integrativi con i propri lavoratori, anche dei buoni dal valore più alto creando non poche discriminazioni. Il secondo problema è quello delle commissioni che gli esercenti si vedono applicare dalle società emettitrici. Un cliente compra un panino e lo paga col buono pasto; il barista spedisce il tagliando alla società che lo ha emesso ma la cifra che gli torna indietro è fra il 7 e addirittura il 12% in meno di quella che gli spetterebbe. «Certe commissioni si avvicinano a tassi d’usura», spiega un barista di Corso Buenos Aires a Milano. «Ma noi esercenti siamo fra l’incudine e il martello: fra commissioni elevate e il rischio di perdere clienti che troverebbero comunque un bar disposto a prenderli, i ticket». Il mercato dei buoni pasto genera un fatturato di quasi 2.400 milioni di euro che per un ristoratore rappresenta un incasso variabile dal 20 fino all’80% del totale. Insomma un’entrata irrinunciabile. E allora si accettano persino le condizioni peggiori. Con commissioni stellari generate, e qui c’è un altro problema, dal fatto che i datori di lavoro riescono a strappare alle imprese emettitrici sconti che poi vengono ammortizzati proprio a spese dei baristi. Una concorrenza sfrenata a monte, dunque, dove le regole sulle gare non sono chiare: le aziende fanno la voce del padrone e le società emettitrici si fanno la guerra a spese di tutta la catena. Il cerchio si chiude in qualche modo sul "povero" lavoratore, che con il suo buono da 5,29 va avanti a tramezzini o è costretto a usare due buoni per mangiare un piatto. Ma così il blocchetto non arriva alla terza settimana. E al lavoratore non restano che tre opzioni: pagare i pasti riducendo il suo reddito; portarsi la "schiscetta" da casa per mangiare davanti al pc; oppure mettersi a dieta. Forzata. Come dire… no ticket, no pasto. E addio pranzo.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: