venerdì 10 settembre 2010
Il nostro Paese resta al 48/esimo posto nella classifica annuale del World Economic Forum (Wef) di Ginevra ma rimane anche il ruolo di fanalino di coda tra tutti i maggiori Paesi industrializzati. In vetta alla classifica del Global competitiveness Report 2010-2011 si conferma la Svizzera, seguita da Svezia, Singapore e dagli Stati Uniti.
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Quarantottesima, come un anno fa. Anche stavolta l’Italia non fa una bella figura nella classifica sulla competitività delle nazioni stilata dal World Economic Forum, la fondazione svizzera che ogni anno riunisce i maggiori politici ed economisti del mondo per il suo vertice a Davos. All’ultimo posto tra le economie avanzate, l’Italia è considerata meno competitiva anche di Porto Rico, Cipro e Barbados.Il problema competitività c’è tutto, ma va spiegato. «Concentrarsi sui singoli indicatori non è l’approccio giusto» spiega Francesco Saviozzi, uno dei tre docenti della Sda Bocconi che hanno contribuito all’indagine del Wef raccogliendo i dati per l’Italia. La classifica funziona così: il Wef ha stabilito 12 «pilastri» della competitività, intesa come insieme di fattori che determinano il livello produttivo di una nazione: si va dalle infrastrutture alla sofisticatezza dei modelli di business, passando per i dati macroeconomici e la salute della popolazione. Per ogni "pilastro" ha preparato una serie di indicatori. Squadre di ricerca in ognuno dei 139 Paesi considerati raccolgono i dati basandosi sulle statistiche ufficiali per gli indicatori più misurabili (come il tasso d’inflazione) e su questionari inviati a manager e imprenditori per gli altri (come la flessibilità del lavoro). I manager danno dei "voti", il tutto viene "ricalibrato" dal Wef a seconda del grado di sviluppo delle nazioni e da lì viene preparata la classifica.«È chiaro che sono percezioni – spiega Saviozzi –: i manager e gli imprenditori italiani se devono dare un giudizio sulle infrastrutture fanno un confronto con quelle francesi o tedesche, quelli di Barbados hanno altri parametri di riferimento». Significa che l’indice "sconta" in qualche modo il livello di soddisfazione e di ottimismo della classe imprenditoriale di un Paese. Il risultato però è che anche nel confronto con le economie simili alla nostra l’Italia ne esce come una nazione poco competitiva. In Europa siamo 19°, la Germania è quinta al mondo e la Francia quindicesima.«Letto bene l’indice lancia dei segnali sulle difficoltà di un Paese» avverte Saviozzi. Lo studioso nota allora che, nelle analisi del Wef, l’Italia risulta come «un’economia che aspira al bel gioco ma è frenata dai soliti problemi strutturali». Ha solo un 1° posto su 111 indicatori, quello sullo «sviluppo dei distretti». Per il resto è frequente trovare l’Italia dopo la centesima posizione. Il contesto istituzionale – con le difficoltà burocratiche, la forza della criminalità organizzata, la corruzione e la percepita scarsa indipendenza del sistema giudiziario – è considerato il primo ostacolo (92°). Poi c’è il mercato del lavoro, troppo ingessato per essere efficiente. L’indicatore sulla flessibilità delle pratiche di assunzione e licenziamento dei dipendenti colloca l’Italia al 129° posto al mondo, quella sulla flessibilità dei salari al 130°. Siamo invece 133° come attrattività del sistema fiscale. I mercati finanziari non sono abbastanza sviluppati (101°) ed è difficile avere finanziamenti (106°). Pesano anche infrastrutture carenti (siamo 31esimi) e scarsa innovazione (50esimi). Ci fanno recuperare qualche posizione i pregi di un’economia 23esima al mondo per "evoluzione" del sistema produttivo, 13esima per quantità di fornitori locali e 12esima per il valore creato lungo la filiera. E allora, conclude Saviozzi, «non chiediamoci perché siamo dietro a Barbados. Chiediamoci perché la Germania è così lontana».
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