martedì 22 ottobre 2013
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Proviamo a fare un "esperimento mentale" e a proiettarci in un futuro relativamente vicino, diciamo tra una quindicina d’anni. Ebbene, quanti di noi nel 2030 immaginano che gli Stati Uniti siano ancora la principale potenza politica, militare ed economica del pianeta? Probabilmente pochi e con qualche ragione. Allungare lo sguardo a un tempo così lontano non serve certamente a realizzare previsioni puntuali: ma ci consente di immaginare una tendenza, a tracciare una traiettoria partendo da quelli che sono i dati in nostro possesso e le dinamiche che abbiamo potuto osservare negli anni trascorsi. Proprio i fatti degli ultimi mesi ci offrono una chiave di lettura interessante per ipotizzare il ruolo americano nel futuro. Gli Stati Uniti sembrano essere usciti dalla recessione in parte causata proprio dalla loro inefficienza nel controllare i mercati finanziari domestici, nel garantire la trasparenza delle operazioni più consistenti e nello scoraggiare il moral hazard. La ripresa sembra però aver addirittura acuito quella distribuzione sempre più ineguale del reddito, della ricchezza e delle stesse opportunità che, secondo molti qualificati osservatori (da Stiglitz a Reich a Krugmann, solo per citare i più noti al grande pubblico), va considerata come una delle cause principali del malessere della società e dell’economia americane. In particolare, anche quella attuale si presenta come una jobless recovery, una ripresa che non crea, o meglio non recupera tutti i posti di lavoro distrutti durante la recessione. Più in generale, la sensazione è che l’attuale fase espansiva sia ancora molto fragile, sottoposta a una serie di minacce provenienti tanto dall’ambito internazionale quanto da quello domestico.Sul fronte internazionale sono soprattutto due i fenomeni che tengono Washington con il fiato sospeso. La perdurante fase di stagnazione e, nel caso di molti Paesi (tra cui malauguratamente il nostro) di vera e propria recessione che ancora attanaglia l’Europa rischia infatti  di soffocare la ripresa americana, continuando a generare un clima di generale ed estesa sfiducia nelle aspettative complessive degli operatori finanziari e di conseguenza riducendo la propensione a concedere credito all’economia reale. In secondo luogo, il rallentamento della crescita cinese e di tutti i cosiddetti Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) illustra fin troppo bene come il ripiegamento delle economie occidentali non sia immediatamente compensato dall’espansione di quelle emergenti. Detto altrimenti, la perdita di centralità delle economie di America ed Europa potrebbe generare un disordine complessivo, o quantomeno un’instabilità duratura, con un abbassamento permanente del livello di crescita complessiva del sistema economico internazionale, unito magari a un surriscaldamento delle economie emergenti.Sul lato domestico la principale fonte di preoccupazione è di natura politica e consiste nella costante e crescente litigiosità tra i due partiti principali del sistema politico americano, i democratici e i repubblicani. La sensazione è che quell’obbligo al compromesso, quella spinta alla negoziazione e alla moderazione delle proprie posizioni che è la premessa per il funzionamento del sistema - e che la stessa Costituzione presuppone e postula attraverso la ferrea separazione dei poteri - sia sempre meno possibile nella realtà contemporanea. Dal "sequestro" del debito allo shutdown, dalla fissazione di rigidi e draconiani limiti di deficit al rischio di vero e proprio default del sistema federale, lo spettacolo a cui abbiamo assistito in questi giorni è quello di un sistema politico ostaggio della radicalizzazione della lotta politica, a sua volta figlia di un calo permanente di rappresentatività delle istituzioni nei confronti del Paese. Non è difficile individuare, ancora una volta, nella frammentazione della società americana lungo una serie di linee di frattura in termini di opportunità e reddito la cause dell’affaticamento della relazione tra politica e società. Un’America sempre più divisa e in preda al furore ideologico, dominata dalla preoccupazione che non ci siano più risorse sufficienti a soddisfare le aspettative di tutti i suoi cittadini sembra non poter sopportare anche i rigidi meccanismi costituzionali con cui la separazione dei poteri è garantita. Resta il fatto che l’impatto della divisione politica sulla ripresa appena cominciata potrebbe essere micidiale.La sola vera luce in fondo al tunnel sembra derivare dalla scoperta delle potenzialità dello shale gas. Gli Stati Uniti, grazie alla loro conformazione geologica e alle sconfinate distese del Paese, sembrano essere in grado meglio di tanti altri di poter sfruttare questa nuova fonte di energia, al punto che diversi esperti preconizzano il raggiungimento della piena indipendenza energetica del Paese nel giro di pochissimo tempo. Accantonando, per un attimo, preoccupazioni di carattere ecologico che pure sussistono, si aprirebbe per gli Stati Uniti un ritorno al passato, ai tempi gloriosi in cui gli Usa erano produttori ed esportatori netti di energia (fino agli anni 60 del secolo scorso). In tal senso c’è chi ipotizza una possibile ritirata degli USA dagli affari del mondo, una nuova stagione isolazionista. Uno scenario più fantascientifico che realistico - che piaccia o meno l’ipotesi  - se solo si considerano gli interessi di sicurezza americani e il radicato e crescente livello di interdipendenza tra l’economia americana e quella degli altri grandi <+corsivo>players<+tondo> mondiali: tanto più in un mondo che sarà comunque assai più multipolare di quanto già oggi non sia.
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