mercoledì 28 marzo 2018
È dimostrato il significativo ruolo svolto sull’occupazione e sulla crescita economica, ma serve stimolare la presenza di fondi e investitori locali
Start up, un futuro possibile per l'Italia
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L’Italia è in uno stato di preoccupante ritardo negli investimenti sull’innovazione. Gli stimoli di sistema per il settore delle start up, principale veicolo di innovazione, sono del tutto insufficienti a portarci ai livelli degli altri Paesi europei. A livello europeo – da una ricerca appena pubblicata da Mind the Bridge su 20 Paesi - siamo penultimi per numero di scale up per abitante (ossia di start up cresciute fino a ottenere investimenti di oltre un milione di euro) e ultimi per numero di capitale raccolto in funzione del Pil.

Nel corso del convegno Startup, dal nanismo agli unicorni: un futuro possibile per l’Italia è emerso un contesto allarmante, che richiede un rapido intervento. Il dibattito introdotto dal presidente dell'associazione La Scossa Michelangelo Suigo e moderato dalla vicepresidente Ilaria Fava ha visto la partecipazione di alcuni tra i pricipali attori del settore, dai fondi di venture capital (LVenture, Principia), agli incubatori (Pni Cube, Digital Magics), agli angels e associazioni (Iag Italian Angels for Growth, Roma startup), fino ad alcune realtà di successo nell’innovazione (da Talent Garden a GammaDonna).

Il convegno è stata l’occasione per fare il punto della situazione sugli strumenti economici e normativi da mettere in campo per garantire la crescita e la resistenza nel tempo delle startup innovative che in molti casi, nel nostro Paese, continuano ad avere un problema di “nanismo”.

Partiti in ritardo temporalmente, l’Italia ha bisogno di politiche ambiziose e sistemiche che cerchino di colmare il divario, stimolando la rapida crescita delle start up e il loro ingresso nella fase di scaling: e non di micro-interventi a pioggia. Per fare ciò è centrale incrementare gli investimenti in equity, che fanno crescere e scalare le start up e ripartire la catena del valore permettendo di apprezzare la crescita, mentre il ricorso al debito è tattico, inidoneo a rispondere alle esigenze delle startup. Del resto - come sottolineato nel corso del dibattito da Marco Gay, ceo di Digital Magics - in Italia abbiamo 4.000 miliardi di euro di risparmio, quasi il doppio del debito pubblico, che si potrebbero utilizzare strategicamente in modo che diventino generatore di sviluppo per il tessuto più fertile del panorama italiano, quello ad alta innovazione.

Occorre creare in Italia un ecosistema di investimenti all’altezza del contesto europeo e mondiale e delineare una strategia a dieci anni per l’innovazione, focalizzata sulla crescita delle imprese ad alto contenuto tecnologico ed elevato tasso di crescita, nelle sue varie fasi. Come affermato da Luigi Capello, fondatore e ceo di LVenture Group «senza un'inversione di marcia il rischio concreto è creare bellissime start up da esportazione, a valori peraltro scontati».

Lo sviluppo del venture capital è uno dei pochi strumenti per dare impulso al Paese, insieme al corporate venture. Incentivarne presenza e capacità di investimento, come quella di tutti gli investitori istituzionali di investimento in start up o scale up è prioritario per assicurare la crescita di queste, e di nuovi cicli economici.

Dall’83 gli Stati Uniti, con politiche mirate di incentivazione, hanno fatto aumentare significativamente il numero di fondi presenti sul mercato americano, e portato al fenomeno degli "unicorni": le mitiche imprese valutate oltre i 100 milioni di euro. Un miraggio a fine anni '90, oggi nel mondo sono 237 (84 miliardi di dollari), di cui più della metà statunitensi. Nessuna italiana.

Nel 2017 si contano 57 nuovi unicorni a livello mondiale, di cui 53 finanziati da fondi di venture capital. Poiché i fondi di venture capital che investono nei primi round di crescita operano solo a livello locale, se l’Italia vuole garantire un futuro alla propria economia è necessario che stimoli la presenza di fondi e investitori locali capaci di investire importi significatici (tra uno e 50 milioni di euro) e di stimolare un settore che per la sua stessa natura richiede ingenti capitali che accompagnino la crescita.

Sul numero e sulla continuità dell’accesso ai fondi (ossia sulla presenza di fondi di venture capital per ogni fase di sviluppo delle imprese startup/scaleup) l’Inghilterra ha fondato il successo del proprio sistema di innovazione (primo in Europa). Peraltro ben più incentivante del nostro (fino al 50% di detrazioni ammesse, con massimali più alti e con la possibilità di detrarre anche le perdite).

Avere numerose scale up aumenta il valore del sistema economico, direttamente e indirettamente, contamina le imprese tradizionali verso l’innovazione e produce un effetto sistemico e attrattivo di investimenti: già visto negli Stati Uniti, Cina e Inghilterra.

Occorre incrementare il numero dei fondi venture capital presenti (appena una decina in Italia), diminuire le difficoltà – in termini regolamentari, di tempi e costi - di costituzione di nuovi fondi, aprire agli investimenti da parte degli investitori istituzionali (casse di previdenza in primis) e dei Pir (anche solo una parte residuale come il 5%), fare sistema anche a livello di corporate, tanto più se partecipate dallo stato: così da aumentare le dotazioni finanziarie a disposizione per investire nell’economia del futuro (altrove già presente).

Come commentato da Salvo Mizzi, general partner Principia sgr: «La situazione del funding per innovazione e start up è da emergenza nazionale: abbiamo bisogno di un piano che ne prenda coscienza», sottolineando che la situazione degli operatori italiani del venture capital «è disastrosa» perché «siamo gli ultimi in Europa e andiamo sempre peggio. Siamo una decina di operatori contro i 120 della Francia. Abbiamo chiesto a istituzioni e politica un piano di 5 miliardi in 5 anni», perché è evidente che senza una terapia d'urto - non paragonabile a quella della Francia - è molto difficile che si riesca a invertire la situazione».

È indubbia la capacità delle start up di trasmettere al sistema economico il virus benefico dell’innovazione, contaminando anche i settori più tradizionali, ma soprattutto è dimostrato il significativo ruolo svolto sull’occupazione e sulla crescita economica.

La crescita dimensionale delle start up rimane quindi un problema rilevante per almeno due motivi: non favorisce la creazione strutturale di nuova occupazione qualificata e non incide in modo significativo sull’innovazione del sistema industriale italiano.

Come sostenuto da Michelangelo Suigo, «occorre dare una scossa all’innovazione delle start up con azioni rilevanti e incisive da parte delle Istituzioni, che accompagnino lo sviluppo di un nuovo sistema imprenditoriale».

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