venerdì 14 aprile 2017
Risorsa di cibo e mitigatore climatico, il mare è sempre più una asfittica pattumiera. In linea con l’Agenda 2030 l’Italia prova a dare il suo contributo
La barriera corallina in una foto di Jan (Arny) Messersmith (Flickr, https://flic.kr/p/7ZBKP9)

La barriera corallina in una foto di Jan (Arny) Messersmith (Flickr, https://flic.kr/p/7ZBKP9)

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Un oceano di silenzio. Prima che cali sul 71% della superficie terrestre, l’Onu ha lanciato un allarmante Sos inserendo tra i 17 obiettivi del millennio il capitolo 14 dedicato alla salvaguardia delle acque, delle risorse marine e della loro biodiversità e fissando l’8 giugno come Giornata mondiale degli Oceani. La cartella clinica stilata lo scorso settembre sulla salute degli oceani fotografa infatti una situazione impietosa. Secondo il direttore dello Iucn, organismo Onu preposto ad hoc, non è più tempo di conferenze e dibattiti, ma di interventi drastici e mirati. Superfluo scorrere la carrellata sulla portata dei mali che affliggono i sistemi marini: si va dal surriscaldamento delle acque con conseguente scioglimento dei ghiacciai dell’Antartide e aumento dei fenomeni atmosferici distruttivi come i cicloni, alla comparsa di intere zone morte ovvero prive di alcuna forma di vita, in particolare nell’oceano Pacifico, dove l’innalzamento delle acque – sempre conseguente alla tropicalizzazione delle temperature – sta determinando la scomparsa di innumerevoli atolli e l’impoverimento, quando non la perso', dita, di interi habitat sui fondali. Gli effetti dell’attività umana sull’impoverimento della biodiversità è stato devastante: 109 milioni di tonnellate di pescato ogni anno provengono da pesca illegale o, ancora peggio, da quella a strascico, vietata perché responsabile dell’estinzione di intere specie tra cui il tonno rosso, il pesce specchio e persino il grande predatore del mare, lo squalo.Tra le conseguenze più allarmanti c’è poi il capitolo delle plastiche: entro il 2050, in termini di 'pe- nei mari nuoteranno più sacchetti che pesci, proseguendo sul trend attuale di circa 8 tonnellate di rifiuti annui. Lo scarico di sacchetti provoca ogni anno il soffocamento di 30 mila foche e l’intrappolamento di circa 50 specie marine in vere e proprie isole di pattume. A pagarne il prezzo sono in primo luogo gli animali marini che, scambiando questi imballaggi per prede, se ne cibano: a ciò è dovuta la riduzione delle tartarughe nel Mediterraneo e l’aumento delle meduse di cui le prime si nutrono, con un grave scompenso di tutta la catena alimentare e con il depauperamento della fauna marina.


Ingrato e irresponsabile debitore verso la preziosa, acquea, distesa blu, sempre più minacciata. L’uomo, dai mari, non riceve soltanto cibo, sali, energia, alghe fertilizzanti, ma anche importantissimi servizi, come la rimozione di anidride carbonica per la fotosintesi delle microalghe, il riciclo e la disponibilità di nutrienti essenziali come azoto, potassio, zolfo e, soprattutto, la regolazione del clima. Il trasporto di calore delle correnti oceaniche dalle aree tropicali a medio alte latitudini supporta le attività umane in aree ove altrimenti la vita sarebbe alquanto ostica. E questo perché il mare assorbe il 93% dell’eccesso del calore liberato dalle attività antropiche in atmosfera. Insieme è in grado di catturare e immagazzinare la gran parte di anidride carbonica di origine antropica (il 26%): le due azioni congiunte hanno finora consentito agli oceani di rallentare il riscaldamento globale. Queste caratteristiche, in uno scenario di crescita della temperatura media globale e di vertiginoso incremento della concentrazione di CO2 in atmosfera, sta portando al collasso l’ecosistema marino stesso. Questo gas, infatti, sciogliendosi in acqua, ne altera il pH, abbassandolo e determinando il fenomeno dell’acidificazione degli oceani.

La lotta al bleaching

Insomma, quanto basta perché nell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite salvare il mare sia uno degli obiettivi primari e fondamentali. Tra le conseguenze poi del riscaldamento e delle alterazioni chimiche delle acque è il fenomeno del bleaching, osservato per la prima volta nella barriera corallina australiana: lo "sbiancamento dei coralli", il cui colore è dovuto ai pigmenti fotosintetici delle microalghe che vivono in simbiosi con i polipi. La perdita di colore è causata dall’espulsione dei pigmenti dalle microalghe, senza i quali i coralli virano verso il bianco e, sbiadendo, riducono la funzionalità della barriera corallina, incidendo sulla sua struttura e di conseguenza su tutta la biodiversità legata a quel particolare ecosistema.

Il countdown per la sopravvivenza delle barriere coralline, i grandi polmoni pluviali del globo, è già iniziato: secondo le stime del National Center Atmospheric Research entro il 2050 il pianeta rischia di perdere l’intero ecosistema corallino e più del 50% è già andato perso. In questo contesto nessun Paese può dirsi innocente e ognuno dovrà contribuire al successo dell’obiettivo 14. Il Mediterraneo, identificato dagli organismi internazionali preposti ai cambiamenti globali come hot spot per i cambiamenti climatici, può rappresentare un modello su cui applicare il concetto di blue growth sostenibile: ogni azione deve garantire cioè il mantenimento del Good Environmental Status (GES), come prescritto dalla Direttiva europea Marine Strategy e qualsiasi impresa che lo alteri non sarà sostenibile, neppure economicamente.

Le sfide per l'Italia

E l’Italia, circondata dal mare per più di 7000 km di costa e con un’economia da sempre strategicamente legata alle risorse che ne derivano, come si prepara a questa importante chiamata? «La sfida per affrontare i cambiamenti globali – dice Paola Del Negro, direttrice della sezione di Oceanografia sperimentale dell’Istituto nazionale di Trieste – consiste nell’integrazione tra le informazioni raccolte su vasta scala secondo l’approccio tradizionale delle campagne oceanografiche sperimentali con quelle fornite su scala di dettaglio e in continuo dall’applicazione di strumenti autonomi di misura ». A questo scopo, l’équipe di giovani ricercatori coordinato dalla dottoressa Del Negro ha sperimentato tra i sistemi autonomi di misura i "glider". «Si tratta di una sorta di alianti sottomarini che si muovono seguendo le correnti – spiega il ricercatore Marco De Pasquale – così da captare le informazioni grazie a reti di osservazione in continuo che impiegano boe meteo- marine, sia costiere che profonde, e boe ondametriche».

A questo complesso sistema integrato si associa poi l’impiego di correntometri e radar costieri ad alta frequenza per i campi superficiali. «Nonostante il felice connubio di questi due sistemi di monitoraggio, pecchiamo ancora nella carenza di dati biologici» sottolinea la Del Negro. Proprio allo scopo di potenziare la componente biologica, l’OGS, riferimento d’eccellenza dell’oceanografia sperimentale internazionale, ha presentato il progetto Nemo per il monitoraggio dei parametri biologici nell’ambito dei sistemi osservativi generalmente rivolti solo a quelli chimicofisici di temperatura, salinità, pH. La metodologia sfruttata non ha precedenti: tramite una boa dotata di un citofluorimetro ad immersione, sarà possibile ottenere in tempo reale anche la composizione dei microrganismi, consentendo un balzo nella comprensione e nella conoscenza del funzionamento degli ecosistemi.

Il progetto Balmas

Avendo istituito una propria sede a Panarea, l’OGS ha la possibilità di poter sfruttare un osservatorio naturale per lo studio degli adattamenti a pH acidi», spiega la Del Negro. A causa, infatti, di fenomeni vulcanici, le fuoriuscite naturali di CO2 dal sedimento marino fanno sì che il pH delle acque delle isole Eolie raggiunga valori decisamente acidi. Anche in merito alla biodiversità marina, l’altro fronte caldo' per la salute degli oceani, OGS sta per concludere, dopo 3 anni di lavoro con altri 17 partners europei, il progetto denominato Balmas sul ruolo centrale delle acque di zavorra – ballast waters – nel trasferimento come veicolo da un’area all’altra di organismi acquatici nocivi e patogeni. Al centro di Trieste sono stati immagazzinati campioni di acqua nelle tanks delle navi per valutare la sopravvivenza delle specie.

Le sofferenze arrecate ai nostri mari basterebbero di per sé a smuovere la comunità internazionale, ma ad esse si aggiungono gli ingenti danni economici. L’attuale management dell’industria ittica determina perdite per 50 miliardi di dollari all’anno e di 200 miliardi per la cattiva gestione delle risorse naturali, a fronte di un valore di mercato delle risorse marine e costiere di 3 mila miliardi di dollari annui. E, forse, vale la pena concludere ricordando che il nostro mare sfama ogni giorno 3 miliardi di persone e garantisce un’occupazione ad altri 200 milioni.

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