lunedì 18 marzo 2013
​Ha funzionato (parzialmente) solo la limitazione degli abusi, nessun effetto su occupazione e lavoro stabile
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Obiettivi non raggiunti. La riforma Fornero del lavoro non raggiunge la sufficienza nei giudizi degli operatori del mercato del lavoro. E' il risultato del primo monitoraggio effettuato dall'osservatorio promosso da GI Group e Od&M consulting proprio per valutare gli effetti delle innovazioni approvate dal governo Monti.
L'unico obiettivo raggiunto dalla riforma, infatti, è la riduzione degli abusi legati all’utilizzo improprio di forme contrattuali flessibili per il 54% delle aziende campione; a dare questo giudizio soprattutto le imprese dell’Industria e quelle di grandi dimensioni. In particolare, per chi ritiene che la riforma sia stata influente sulle proprie scelte di gestione delle risorse umane, è diminuito il ricorso a contratti di collaborazione a progetto (51%) e Partite Iva (45%).
La riforma invece non diminuisce il costo del lavoro per quasi tre imprese su quattro (73%) e non aumenta l’occupazione per due terzi delle imprese (66%). Inoltre, per il 59% dei rispondenti la riforma non introduce competitività nel sistema e per un intervistato su due non favorisce l’instaurazione di rapporti di lavoro più stabili, ma, al tempo stesso, non facilita i licenziamenti (52%), né aumenta l’inserimento dei giovani al lavoro (54%).
“La riduzione delle forme improprie di flessibilità (Co. Co. Pro., Partite Iva, etc.) è indubbiamente il principale risultato che va riconosciuto alla legge Fornero. L’altra faccia della medaglia è che la riforma ha introdotto elementi di limitazione sull’utilizzo di determinati strumenti senza aver concretamente indicato gli elementi  positivi e le alternative da utilizzare – commenta Stefano Colli-Lanzi, Ceo di Gi Group e presidente di Gi Group Academy -. Un esempio su tutti vale per la somministrazione: la legge non la nomina e la lascia pressoché inalterata, laddove sarebbe stato necessario, a fronte delle giuste limitazioni introdotte su altre forme di flessibilità, indicarla concretamente, magari liberandola da alcuni vincoli normativi e incentivandone l’utilizzo. Per quanto riguarda la flessibilità in uscita, invece, c’è da dire che la riforma è ”incompiuta”. Si è fermata a metà del guado mentre avrebbe dovuto andare fino in fondo, scardinando il concetto di inamovibilità del posto di lavoro che oggi, di fatto, crea un mercato duale in cui chi ha il posto è intoccabile, ma chi è fuori dal mercato non ha quasi nessuna speranza di entrarvi. Tutto ciò produce un sistema fortemente improduttivo e bloccato. Sbloccare la flessibilità in uscita è l’unico modo per ridare centralità al contratto a tempo indeterminato, che dovrebbe essere il modo “naturale” per inserire nuove risorse. E, si badi bene, questa è la stessa linea che ci propone l’Ocse con il suo rapporto Going for Growth 2013”.
Sempre a livello di sentiment, per il 50% delle imprese la riforma non crea maggior inclusione delle donne né nuove opportunità di impiego per gli over 50 e per poco meno della metà dei rispondenti (46%) tende, anzi, a paralizzare le scelte di assunzione delle imprese. In termini di impatto, invece, la riforma, per 6 rispondenti su 10, ha inciso principalmente sulla gestione della flessibilità in ingresso e, sebbene in misura minore, anche sulla gestione dell’uscita delle persone dall’azienda (20%), peggiorandole, rispettivamente per il 55% e il 45% dei rispondenti, e rendendole anche più costose, rispettivamente per il 58% e il 46%.
In generale non risulta che la legge Fornero abbia modificato i livelli di utilizzo dei vari strumenti di gestione delle risorse umane, eccezione fatta per le associazioni in partecipazioni (diminuite nel 51% dei casi). Tuttavia, chi riconosce influenza o molta influenza alla riforma rispetto alle proprie scelte aziendali ha dichiarato una diminuzione del ricorso a contratti di collaborazione a progetto (51%), Partite Iva (45%), contratti di inserimento (45%) e a tempo determinato (42%); mentre, è aumentato il ricorso ai contratti di apprendistato (per il 50%) e ai contratti di somministrazione a tempo determinato (per il 36%).
I contratti che a seguito della Riforma sono stati trasformati o abbandonati da almeno la metà del campione sono, invece, quelli di inserimento, associazione in partecipazione, lavoro intermittente, collaborazione a progetto.Fra i contratti che sono stati trasformati il 76% è stato convertito in un'altra forma contrattuale flessibile e solo il 24% in contratti a tempo indeterminato. Fra le forme flessibili verso cui le imprese si sono dirette prevalgono i contratti a tempo determinato (19%), quelli in somministrazione a tempo determinato (17%), Partite Iva e collaborazioni a progetto (14%) e i contratti di apprendistato (12%).
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