venerdì 7 febbraio 2020
Dal 2008 al 2018 il Paese ha perso oltre due miliardi di ore lavorate con conseguenze sulle retribuzioni. È quanto emerge dallo studio dei consulenti del lavoro
L'impatto della decrescita sulle pensioni future
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L'Italia non è un Paese per giovani. Ma neanche per pensionati. Soprattutto se si volesse prendere in considerazione la qualità della vita in rapporto alla previdenza. «È quanto mai necessario, soprattutto fra le nuove generazioni, sensibilizzare i lavoratori italiani a una adeguata gestione del Tfr e, più in generale, all’investimento in previdenza complementare per garantirsi un reddito adeguato nella vecchiaia - spiega
Marina Calderone, presidente del Consiglio azionale dell’Ordine dei c
onsulenti del lavoro -. Si tratta di una sfida in più per un sistema che dovrà nei prossimi anni necessariamente attivare tutta quella rete di infrastrutture e di servizi - banche dati, formazione, accompagnamento al lavoro, consulenza - necessaria a supportare l’occupabilità dei lavoratori lungo tutto l’arco della vita attiva e a coprire, con apposita e nuova
strumentazione, i rischi derivanti dalle interruzioni dei percorsi lavorativi che saranno, presumibilmente, molto più frequenti e diffusi».

Sebbene tra il 2008 e 2018 l’occupazione sia aumentata di 125mila unità, con una variazione positiva dello 0,5%, nello stesso periodo si sono perse oltre due miliardi di ore lavorate che, calcolate per ciascun occupato, portano il volume annuo medio in capo a ogni lavoratore dalle 1.806 ore del 2008 alle 1.722 del 2018 (-4,6%). Una decrescita generalizzata per il nostro Paese destinata a impattare sugli importi degli assegni pensionistici futuri degli italiani, sempre più calcolati su quanti contributi previdenziali realmente versati. Non solo. Tale scenario, fra le altre cose, deve fare i conti con il calo demografico destinato, anche questo, a impattare sugli equilibri pensionistici di medio periodo. Secondo l’Ocse, infatti, entro il 2050 in Italia il numero dei pensionati potrebbe superare quello dei lavoratori. La Fondazione Studi consulenti del lavoro, con il documento Verso la riforma previdenziale. Alcuni elementi di riflessione, evidenzia le principali criticità del mercato del lavoro italiano e le azioni da mettere in campo per sostenere la crescita, indispensabile anche per la sostenibilità del sistema previdenziale.

Particolarmente allarmante risulta il divario tra tendenze nazionali e internazionali per quanto attiene il lavoro giovanile dove l’Italia presenta un livello di occupazione dimezzato rispetto a quello dei giovani europei, dove la media di occupati sul totale della popolazione giovanile è del 35,3%. A pesare poi è la strutturale presenza di lavoro irregolare che “sottrae” annualmente alla platea dei contribuenti il 15,5% dei lavoratori (dato al 2017). Un danno duplice: per il sistema, che potrebbe migliorare performance in termini di sostenibilità, e per gli stessi lavoratori, il cui futuro risulta più a rischio di quello del sistema previdenziale. Nel corso del decennio preso in esame, la stagnazione economica che ha caratterizzato l’Italia, dove il Pil non è ancora riuscito a recuperare i livelli precrisi, ha condizionato anche la dinamica della produttività e della disponibilità di reddito. È evidente che questi aspetti già stanno avendo un impatto estremamente rilevante sui lavoratori-contribuenti di oggi, la cui pensione sarà calcolata in misura preponderante o esclusiva (a partire dal 2036) con il sistema contributivo, ponendo un forte interrogativo sull’adeguatezza del futuro assegno pensionistico che saranno in grado di garantirsi con i loro “accantonamenti”.

«Per un giovane - consiglia Rosario De Luca, presidente della Fondazione Studi consulenti del lavoro -investire in un riscatto, anche se in forma agevolata, risulta oggi sempre più azzardato vista la continua evoluzione del panorama pensionistico. Le scelte di oggi possono non trovare infatti una diretta convenienza nei futuri scenari delle pensioni di domani. Investire in un fondo pensione complementare rimane la scelta più sicura in termini di rendimenti, investimento e redditività. In presenza di un fondo negoziale previsto da un contratto collettivo, i lavoratori subordinati godono poi del contributo extra del proprio datore di lavoro che amplia e irrobustisce il proprio pacchetto retributivo e consente di godere in modo più esteso del beneficio fiscale annuo previsto dalla normativa fiscale (deducibilità dalla tassazione fino a 5.164 euro annui)». La flessibilità in uscita, tuttavia, potrebbe diventare una ricetta fondamentale per consentire il ricambio generazionale. Questa è infatti una costante delle varie riforme, dalle forme di Ape fino a Quota 100. «Questo ingrediente . sottolinea De Luca - deve però essere sempre accompagnato alla materia prima più importante, vale a dire forme di incentivazione alle assunzioni che consentano agli indici di occupazione, specie giovanile, di risollevarsi, di rilanciare il sistema Paese e di aumentare così i contributi versati alle forme di previdenza e garantire la sostenibilità del sistema pensionistico. Introdurre in modo indiscriminato anticipi pensionistici garantisce un facile apprezzamento nel breve termine, ma non guarda agli effetti sulle generazioni di domani e sul mondo del lavoro di oggi». Anche il contratto di espansione «è una sperimentazione piena di coraggio nel nostro sistema previdenziale, ma rischia di essere troppo complesso da gestire (non a caso solo due aziende ne hanno usufruito nel primo anno di vita). Inoltre, andrebbe forse ripensato per tutelare maggiormente i lavoratori la cui futura pensione, a valle del periodo di prepensionamento, è molto più contenuta rispetto ad altri strumenti più tutelanti come l'isopensione Fornero, stabile e praticabile anche da piccole e medie imprese sopra i 15 dipendenti». Il nostro debito pubblico e la natalità zero costringono il nostro Paese a una riforma pensionistica sostenibile e articolata, che non guardi solo alla contribuzione obbligatoria che carica sempre più di oneri di costo e gestionali i datori di lavoro, ma anche complementare e con investimenti a scelta del dipendente, che consenta di modulare, sulla base delle esigenze personali di ognuno, la pensione del futuro in un sistema di welfare più al passo coi tempi e ispirato agli altri Stati europei. Una situazione resa ancora più complicata dalla "sinergia" tra previdenza e assistenza. «Sono due facce della stessa medaglia conclude De Luca - ma forse quello che è necessario, più che una separazione, è una razionalizzazione del sistema assistenziale che eviti un sistema di welfare pubblico complesso, con prestazioni dai requisiti farraginosi con iter di certificazione spesso troppo articolati e inaccessibili ai cittadini senza un aiuto esperto. Nella giungla delle prestazioni assistenziali serve forse più che mai un'opera di semplificazione che consenta anche allo Stato di razionalizzare e monitorare la spesa pubblica, scegliendo le soluzioni che riescono davvero, non solo sulla carta, a migliorare la vita dei cittadini».

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