lunedì 16 maggio 2011
Una ricerca di Gi Group mette in evidenza un giudizio negativo sul mercato del lavoro italiano, prevedendo un'evoluzione. Ma non così ampia come sarebbe auspicabile
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Sul mercato del lavoro italiano tira aria di cambiamento. O meglio: di qui a cinque anni si prevede un’evoluzione, in particolare delle relazioni industriali. Ma non di portata così ampia come si desidererebbe. È il risultato di un’indagine qualitativa «Il futuro del lavoro, il lavoro del futuro» svolta da Od&m consulting e Gi Group, con la supervisione scientifica di Carlo Dell’Aringa e Giuseppe Scaratti docenti all’università Cattolica ed Emilio Bartezzaghi del Politecnico di Milano, i cui risultati sono stati discussi questa mattina a Milano. La ricerca ha preso in esame due scenari relativi a sei ambiti: i settori economici e le relazioni industriali; i modelli organizzativi e le reti; il rapporto individuo-organizzazione e i significati del lavoro. Il quadro che emerge dalle opinioni del panel di 24 esperti scelti tra direttori delle risorse umane, sindacalisti e osservatori esterni, segnala un giudizio negativo della situazione attuale, ritenuta piuttosto "arretrata" in tutti gli ambiti. La previsione è dunque di un miglioramento generalizzato, più o meno ampio, ma comunque inferiore a quanto ritenuto necessario o auspicabile. In particolare per tre segmenti – le relazioni industriali, i modelli organizzativi e i significati del lavoro – rispetto ai quali si attende un maggior decentramento della contrattazione verso il livello aziendale, l’unità della rappresentanza sindacale, lo sviluppo delle reti di impresa, assieme a modelli organizzativi aziendali meno gerarchici e un miglior coinvolgimento dei lavoratori nelle aziende.«C’è una voglia di cambiamento condivisa – ha commentato Stefano Colli Lanzi – amministratore delegato di Gi Group – che sollecita come protagonisti le imprese e i sindacati, ma coinvolge di fatto tutti gli stakeholder del mercato in un impegno anzitutto educativo al lavoro. Possono essere individuate delle soluzioni win-win come lo sviluppo dello staff leasing o dell’apprendistato». Uno strumento, quest’ultimo, sul quale si è soffermato anche Pierangelo Albini, numero due delle relazioni industriali di Confindustria, per il quale però «occorre recuperare capacità decisionale. Ad esempio: mentre in Europa si sta studiando come rendere comune il glossario delle professioni, da noi l’apprendistato non si è sviluppato perché non abbiamo deciso se sono le imprese o le Regioni a dover certificare la professionalità di un saldatore, con sistemi e valutazioni differenti tra regioni diverse».Al di là del ruolo del legislatore, però, per Giuliano Cazzola, vicepresidente della commissione Lavoro della Camera, «quando la ripresa si consoliderà ci troveremo di fronte un problema enorme di offerta di lavoro insufficiente, sul piano numerico per il calo demografico e su quello qualitativo per la sua scarsa qualificazione tecnica». Questione centrale anche per Bernard Scholz, presidente della Compagnia delle Opere, secondo il quale «occorre uno sforzo culturale per rivalutare le professioni manuali e soprattutto il significato del lavoro come "essere utile per" l’azienda, il territorio, il bene comune». Impegno condiviso da Roberto Benaglia, della segreteria lombarda della Cisl: «Ora è tempo non di nuovi modelli, ma di stringere più accordi aziendali, di promuovere la formazione continua, di far crescere una vera partecipazione a partire dalla base, arrivando a differenziare i salari in base a merito, competenze e grado di coinvolgimento».
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