giovedì 20 novembre 2014
Il ruolo dei consumatori attivi nell’era dei social media. Il caso Moncler con i presunti maltrattamenti agli animali e le note vicende di Nike e Shell su sfruttamento di minori e inquinamento dell’ambiente segnalano la forza della mobilitazione del pubblico.
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​È uno strano animale, la reputazione di un’impresa o di un marchio. Servono anni d’impegno costante per costruirla, può bastare un solo episodio per metterla a rischio. Ad esempio quando un’impresa si rende protagonista, o c’è anche solo il sospetto che lo sia, di comportamenti poco graditi ai consumatori. È emblematico quanto accaduto di recente a Moncler, la nota azienda di abbigliamento, uno dei molti e prestigiosi marchi della moda made in Italy. In un servizio della trasmissione di Rai3 Report il suo nome è stato accostato a pratiche di maltrattamenti sugli animali legate alla produzione della materia prima (oche spiumate vive). Tanto è bastato, nonostante l’azienda abbia risposto a stretto giro di posta, perché partisse il passaparola, il tam tam propagato prima di tutto sui social network. Col risultato che il giorno successivo in Borsa il titolo Moncler ha lasciato sul campo vari punti percentuali. E con il timore, come sempre avviene in questi casi, che possano partire azioni più gravi e dannose, come il boicottaggio organizzato, capaci di incidere su fatturato, quote di mercato e così via.
La storia è ricca di vicende più o meno gravi che hanno messo a dura prova la reputazione di marchi noti a livello globale. Uno dei casi più celebri in questo senso resta quello di Nike, accusata negli anni 90 di sfruttamento del lavoro minorile nelle fabbriche asiatiche da cui si riforniva per produrre i famigerati palloni cuciti a mano dai bambini pachistani. Grazie anche al pungolo del boicottaggio internazionale, l’azienda cambiò approccio e anni più tardi divenne un caso di best practice quando diede completa informazione sulla sua rete di fornitori a livello mondiale, recuperando in reputazione. A passare alla storia è stata anche la reazione diffusa fra i cittadini del Nord Europa nei confronti di Shell: a metà anni ’90 smisero di rifornirsi alle sue stazioni di servizio quando la compagnia decise – per poi tornare sui suoi passi – di affondare una piattaforma petrolifera in disuso nel Mare del Nord. Copione non troppo diverso, in anni più recenti, per Asia Pulp&Paper, colosso asiatico della produzione di carta e polpa di legno: criticata per le sue pratiche di deforestazione, da un paio d’anni ha detto stop e ha avviato una serie di iniziative di conservazione delle foreste giudicate come interventi di eccellenza dai suoi stessi stakeholder.
Discorso analogo per Apple, finita nell’occhio del ciclone per le condizioni di lavoro negli stabilimenti cinesi della Foxconn, suo fornitore, tristemente passata alla storia come la "fabbrica dei suicidi". Per finire con la trentina di marchi internazionali, specie della moda, che avevano relazioni commerciali con le aziende ospitate nel Rana Plaza, il palazzo che il 24 aprile 2013 crollò a Dacca, in Bangladesh, in una delle più grandi tragedie della storia del lavoro (morirono oltre mille persone): la mobilitazione attorno a quella vicenda ha portato a una serie di iniziative, fra cui una risoluzione del Parlamento Europeo, tese al miglioramento delle condizioni di lavoro e sicurezza per gli operai del settore tessile.A prescindere dalla validità, dal peso o dal fondamento delle critiche che vengono rivolte alle aziende, oggi il dato da considerare è l’emergere di un realtà con la quale le aziende devono sempre più confrontarsi: l’aumento dei "consum-attori", cioè i consumatori che considerano il loro acquisto un "voto col portafoglio", come ama dire l’economista Leonardo Becchetti, con cui premiare o punire le imprese a seconda del grado di responsabilità. Internet, oltretutto, ha aumentato in modo esponenziale i rischi e le opportunità.
Sul web, a cercarle, si trovano ormai informazioni di ogni genere, a volte attendibilissime, a volte meno. Una realtà che le imprese non possono più snobbare. Anche per il proliferare di siti e piattaforme ad hoc, per promuovere boicottaggi di ogni tipo, a volte ben documentati, altre meno. Si pensi alla campagna sulle "banche armate" (www.banchearmate.it) o alla più recente sulle "coal banks", gli istituti legati all’estrazione del carbone (www.coalbanks.org); agli award all’"irresponsabilità" delle multinazionali, che vengono assegnati negli stessi giorni del World economic forum di Davos (www.publiceye.ch) o a quelli per le imprese accusate di "mentire", come Pinocchio, sul loro tasso di "sostenibilità" (www.prix-pinocchio.org); fino alle piattaforme che offrono ai consum-attori informazioni su specifici settori. E non ci sono solo i consumatori. Gli investitori, ad esempio, grandi (istituzionali) e piccoli (retail), hanno imparato anch’essi a orientare gli investimenti in base a considerazioni sulla reputazione e la sostenibilità delle società quotate, scoprendo che ciò riduce i rischi e genera aspettative di rendimenti più affidabili nel medio-lungo termine. È la finanza etica o socialmente responsabile (Sri) che utilizza anche indici azionari etici o di sostenibilità (Dow Jones Sustainability Index, Ftse4Good) per dare evidenza alle imprese con le migliori performance sociali, ambientali e di governance. E che pure in Italia, dove si è appena celebrata la terza edizione della Settimana della finanza sostenibile e responsabile, vede crescere i sostenitori. «In generale gli investitori sono molto sensibili alla reputazione, che comprende tante cose fra cui la sostenibilità – spiega Aldo Bonati, Programme officer del Forum per la finanza sostenibile, coordinatore della Settimana Sri –. Soprattutto gli istituzionali, perché in qualche modo ne va anche della loro reputazione. Quanto ai social network, anche se nel caso di Moncler tutto è partito da un servizio televisivo, senz’altro accelerano la diffusione dell’informazione, ma possono creare bolle. Che a volte scoppiano e finiscono con l’essere dimenticate».
Diventa allora centrale capire alcune cose: quanto c’è di vero nelle informazioni trasmesse – se si tratta cioè di bolle o meno – e in quello che rimbalza sui social media, che spesso facilmente si trasforma da sassolino in valanga; che danni può causare alla reputazione di un’azienda; e come le aziende possono avere un ruolo in questa partita. «Oggi sembra che tutto sia social, ma occorre distinguere», spiega Andrea Barchiesi, esperto di reputazione online e ad di Reputation Manager, che la sera della trasmissione su Moncler ha rilevato come 9 tweet su 10 legati al brand fossero negativi: «Ci sono danni di breve periodo, come quelli che può fare Twitter, e si registrano quasi ogni giorno; poi, però, ci sono i danni seri, di medio-lungo periodo, che non derivano dal semplice chiacchiericcio, ma da approfondimenti, recensioni, discussioni, cioè da tutto il web. E questi possono assumere la forma di un’inondazione, con una potenza enorme. Di fronte a ciò, al tempo un grande pericolo e una grande opportunità, le aziende hanno un atteggiamento tendenzialmente difensivo, di reazione a danno già fatto. Dovrebbero invece predisporre procedure d’intervento, per alzare gli argini quando l’onda arriva, magari aprendo punti d’ascolto al pubblico. E poi lavorare sui contenuti e sul presidio dei canali digitali. Sul digitale, infatti, quella della reputazione è una sfida completamente diversa: come negli scacchi, bisogna aver aperto i pezzi per poter sviluppare gioco». Parafrasando una celebre espressione del grande sociologo Zygmunt Bauman, quella della «reputazione liquida», tra web e social network, è una sfida che pare solo agli inizi. Ma che le aziende devono imparare a giocare in fretta.
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