mercoledì 18 giugno 2014
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«Herman, quanti danari possiamo spendere l’anno prossimo?». È la domanda che Matteo Renzi rivolgerà stamattina, sull’uscio di Palazzo Chigi,  a Van Rompuy, il gran tessitore delle larghe intese all’europea, il mediatore che deve spianare al popolare Claude Juncker la strada verso la presidenza della Commissione europea. La linea del governo italiana è chiara sin dall’inizio: «Prima i contenuti, poi i nomi». Va bene anche Juncker, nonostante sia uno dei volti del 'rigorismo' alla tedesca, purché dia all’Italia  più margini sulla regola del deficit. E qualcosa si sta muovendo: «Van Rompuy sta lavorando a un testo per aumentare la flessibilità del Patto di stabilità – fa sapere Hannes Swoboda, uno dei leader del Pse –. Siamo in contatto con Renzi, più flessibilità è la precondizione del premier italiano per un accordo su un candidato». Un’altra autorevole conferma arriva da Berlino: «Dobbiamo fare tutto il possibile perché i Paesi che realizzano le riforme ottengano incoraggiamento e sostegno», spiega Michael Roth, viceministro tedesco  per gli Affari europei. Le ipotesi in campo sono tre: non conteggiare nel deficit alcuni investimenti produttivi (infrastrutture, scuole, tecnologia e ricerca), escludere dal computo parte del cofinanziamento nazionale ai fondi europei, premiare chi fa le riforme strutturali con un 'tesoretto' contabile. In tal caso, l’Italia potrebbe dire davvero sì a Juncker, sostenuto - sebbene obtorto collo - dalla Germania di Angela Merkel. Il sì di Renzi (che ieri ne ha parlato in un colloquio telefonico anche con Francois Hollande, il presidente francese) e dei socialisti è decisivo perché il nuovo presidente avrà bisogno del voto in Europarlamento di Ppe e Pse, e nel gruppo socialista l’Italia detta legge. Il nodo da superare sarebbe poi l’ostracismo dell’Inghilterra: Cameron ha più volte minacciato che un presidente come Juncker potrebbe accelerare il referendum sull’addio all’Ue. Sono scenari di cui ieri si è parlato al Quirinale nell’ormai rituale pranzo di lavoro pre-Consiglio Ue tra il capo dello Stato Giorgio Napolitano e il governo (presente quasi al gran completo). Il «sì» condizionato a Juncker è emerso dal commento rilasciato da Gozi, il sottosegretario con la delega europea: «Chiunque sia presidente, vogliamo che si impegni su  crescita, occupazione, energia e diritti fondamentali». L’ultima parola spetta oggi a Renzi e Van Rompuy. Se il programma sarà pro-sviluppo come chiedono Italia, Francia ed Europa del Sud, è possibile che l’indicazione del nuovo presidente arrivi già nel Consiglio Ue del 26 giugno. E seguendo lo schema dell’intesa Ppe-Pse, a Roma toccherebbe il dicastero comunitario delle Politiche agricole, che potrebbe finire a Paolo De Castro. Se così non sarà, si ricomincerà daccapo: Renzi ha un piano-B, ma finora l’ha ben nascosto. Nell’attuale scenario, sembra invece esclusa l’ascesa di un italiano ad un’alta carica comunitaria. Lo conferma Enrico Letta, da molti associato al ruolo di presidente del Consiglio Ue finora rivestito da Van Rompuy: «C’è Draghi alla Bce, è altamente improbabile», ammette.
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