sabato 29 maggio 2021
L’idea di una tassa sulle successioni oltre un certo livello è giustificata dalla realtà e dallo squilibrio del sistema di imposizione
Il quartiere City Life a Milano

Il quartiere City Life a Milano - Fotogramma

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Un modo per orientarsi nel dibattito su “tassa di successione sì” o “tassa di successione no”, ma anche su “patrimoniale sì” o “patrimoniale no” potrebbe essere quello di partire da una cifra: 3mila euro. In Italia le dichiarazioni dei redditi Irpef superiori a 3mila euro netti al mese sono inferiori al 3% del totale. Il 97% guadagna o dichiara meno. Circa il 2% si colloca tra i 3 e i 5mila. Queste cifre sono significative se si vuole capire veramente dove si trova la ricchezza degli italiani.

Per essere ancora più chiari facciamo un esempio. Un reddito di 3mila euro al mese è sicuramente elevato, tuttavia non si può tecnicamente definire “ricca” una famiglia con una tale livello di entrate, se sono le uniche, pur se in questa fascia i genitori in Italia perdono il diritto di ricevere gran parte dei benefici. Al Nord infatti la soglia della povertà assoluta per una famiglia con due figli è attorno ai 1.700 euro mensili (al Sud 1.300). Questo significa che vivendo come "poveri" nell’area milanese, in 20 anni con 3mila euro al mese si riuscirebbero a risparmiare circa 300mila euro. Una cifra che permette giusto di acquistare l’appartamento in cui si abita, se si vive in periferia, poco più di un locale se si sta in centro.

Questi numeri non hanno il valore del rigore scientifico, tuttavia sono abbastanza fedeli e indicativi. La domanda cui conducono è la seguente: se tale è la realtà dei redditi italiani, da dove deriva la ricchezza che permette (al netto del Covid, s’intende), il livello di consumi che siamo abituati a vedere? La risposta è semplice: in parte dall’evasione fiscale – vero ammortizzatore sociale informale per tante categorie di lavoratori, valutata attorno ai 100 miliardi di euro – ma anche dal fatto che in una famiglia vi possano essere due o più stipendi, o ancora dalla circostanza per cui chi non ha carichi familiari gode di maggiori capacità di spesa. Le ricchezze più elevate sono anche frutto del lavoro di tanti bravi imprenditori, del talento di grandi artisti o campioni nella loro professione, ma queste percentualmente sono poco significative e rientrano nell’1%. Ora, anche facendo la tara a tutto questo, la conclusione del ragionamento è che nella mischia del ceto medio molto spesso non è il reddito da lavoro a fare la differenza nel determinare il benessere economico di una famiglia, ma sono altre voci, come il patrimonio familiare, le rendite di cui si può beneficiare o ciò che si eredita.

Insomma, il dibattito sulla possibilità di introdurre anche in Italia una forma di imposizione patrimoniale come una tassa sulle successioni più consistenti, oltre i 5 milioni di euro – l’ipotesi-Letta, per capirci – è tutt’altro che fuori luogo. E l’opposizione che la proposta ha incontrato nel dibattito pubblico (che è ben altro dal sentire della popolazione), spiega da sola quanta ricchezza si trovi in Italia al di là del reddito da lavoro o di quello dichiarato ai fini Irpef. La Corte dei conti, nel Rapporto sulla Finanza pubblica 2021, lo ha detto chiaramente: i redditi da lavoro pesano sempre meno sul Pil, eppure restano i più tassati.

Ciò che si potrebbe arrivare a dire, estremizzando, è una verità scomoda da ammettere: senza altri tipi di “fortune”, e mantenendoci sempre sopra la fascia del bisogno, il solo stipendio non è più determinante. Una famiglia nella quale i genitori hanno un discreto livello di assennatezza, cioè destinano una quota significativa dei risparmi possibili all’istruzione e alla formazione dei figli, non sarà mai ricca con le sole entrate del proprio lavoro. Ma questo il sistema fiscale in vigore non riesce a tenerne conto nel momento in cui prevede un carico più leggero sugli altri tipi di guadagni.

E dunque: è così scandaloso ipotizzare una tassazione sulle fortune più grandi in una logica di equa redistribuzione a favore dei giovani? Nel merito della proposta formulata dal segretario del Pd si può obiettare che vincolare anche questa “restituzione” al reddito, oppure all’onnipresente indicatore Isee, è quasi un cortocircuito ideologico. Tuttavia, il tasso di legittimità di un’imposta sulle eredità resta elevato. Il sistema fiscale italiano ha bisogno di essere ricalibrato alleggerendo il peso sul lavoro per trasferirlo altrove: ai consumi, alle rendite immobiliari, ai patrimoni, alle successioni.

Dal tema fiscale il discorso può essere allargato ad altri aspetti, come la concessione di sconti, benefit o provvidenze alle famiglie. In Italia le detrazioni per i figli a carico e gli assegni familiari rispettano una progressività rigorosa, sono cioè calibrati per diminuire violentemente con l’aumentare del reddito, in virtù di uno schema che poteva valere fino a 30-40 anni, fa quando le famiglie erano molto più omogenee e il solco delle divisioni era tracciato in base all’appartenenza a poche classi sociali: operai, impiegati, dirigenti. Ma oggi? Nel mare magnum di quello che si definisce “ceto medio”, cosa fa veramente la differenza? La società è talmente cambiata che i parametri da valutare sono altri e ancora una volta diversi dal reddito. Ad esempio: il numero dei figli, la stabilità o meno del posto di lavoro, la località in cui si risiede e il costo della vita cui ci si rapporta, la disponibilità di case di famiglia anche per le vacanze, le ore di tempo libero, la presenza e il numero di nonni pronti a dare una mano, il loro stato di salute, ma soprattutto il loro reddito o il patrimonio di cui dispongono, e che un giorno sarà ereditato. Per il 98% delle dichiarazioni Irpef, la vera differenza si gioca quasi tutta in queste voci. Ma quale indicatore ne tiene conto?

In una società complessa il perimetro della ricchezza o del benessere ai livelli intermedi è impossibile da definire se ci si ferma a vecchi schemi. È per questo che a fronte di un’imposizione progressiva sui redditi da lavoro che va ripensata nel suo insieme, è necessario pensare a una forma di tassazione anche sulle fortune accumulate o trasmesse, se può servire a sostenere una dote comune a tutti i giovani, o a porre sullo stesso piano tutti i figli minori, quando si parla di concedere sostegni o assegni ai loro genitori. Il dibattito ha bisogno di uscire da confini ideologici antistorici e di superare gli steccati degli interessi personali, per un tuffo salutare nella realtà.

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