martedì 14 marzo 2017
Il business dell'editoria musicale raccontato da Roberto Razzini, amministratore delegato di Warner Chappell, presidente della Federazione Editori Musicali e membro del direttivo Siae.
Roberto Razzini, amministratore delegato di Warner Chappel Italia, presidente della Federazione Editori Musicalie  e membro del direttivo Siae

Roberto Razzini, amministratore delegato di Warner Chappel Italia, presidente della Federazione Editori Musicalie e membro del direttivo Siae - Ray Tarantino 2016ray@raytarantino.com

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Roberto Razzini è uno dei «signori della musica». È l’«editore» di Emma, Ligabue, Laura Pausini, Max Pezzali, Paolo Conte, Vasco Rossi, Venditti, Zucchero e decine di altri artisti. La Warner Chappell, di cui guida la sede italiana, amministra nel mondo oltre un milione di canzoni. Presidente della Federazione Editori Musicali è membro del Consiglio di Sorveglianza della Siae, la Società Italiana Autori ed Editori.

Lo studio Italia creativa sostiene che la musica in Italia vale 4,7 miliardi di euro. Se davvero è così, perché non ce ne siamo mai accorti?
Li vale perché tiene conto di tutta la filiera che opera attorno alla musica: dai concerti agli studi di registrazione, da chi produce merchandising (magliette e gadget) agli strumenti musicali. È questo dovrebbe farci riflettere sul fatto di quanto la cultura, di cui la musica fa parte e che ovviamente comprende molti più settori, sia importante per il Paese.



Perché la musica in Italia non è mai riuscita a «pesare» quanto pesa la moda?

Innanzitutto perché è molto più frammentata. La moda ha punti di riferimento precisi. Persone fisiche che hanno creato grandi gruppi. Nella musica non siamo stati capaci di fare sistema. C'è troppo egoismo. In maniera provinciale abbiamo perso e perdiamo tempo a cercare piccole rivincite.

I primi a comportarsi così sono stati e sono gli artisti. Ognuno va per conto suo e quasi nessuno fa «sistema».
Viviamo tutti nello stesso microclima. Quindi siamo tutti, chi più chi meno, vessati da questa brutta abitudine italiana di guardare ognuno al proprio orticello. Il risultato è che non siamo stati capaci di ottenere provvedimenti di tutela da parte del legislatore e del Governo che avrebbero potuto aiutare la musica a consolidarsi come valore e non come bene comune da saccheggiare qua e là.

Non mi dirà che il problema è solo la pirateria...

No di certo, ma da sempre il nostro Paese ha un tasso di pirateria musicale che è il più alto in Europa ed è pari a quello dei Paesi sudamericani.

La musica è cuore, passione ma anche business. È giusto dire che con la crisi della discografia i veri soldi ormai passano da voi editori che curate i diritti d’autore?

Per anni abbiamo guardato al mercato musicale concentrandoci sulle vendite degli album e dei cd. Così però abbiamo perso di vista il vero valore della musica, che è la canzone non il supporto sul quale viene venduta e ascoltata. E tutto inizia ed esiste se c’è un autore.

Secondo Siae, in Italia vengono liquidati ogni anno oltre 600 milioni di compensi per diritti d’autore. A quanto ammonta il mercato editoriale della musica?

È difficile avere un dato globale, perché ognuno tiene i suoi dati riservati. Per quanto riguarda Warner Chappell le posso dire che il 90% del nostro fatturato (nel 2015 è stato di 13,5 milioni di euro – ndr) viene fatto con circa il 15% delle nostre canzoni.

Quali sono le cose che più fanno guadagnare un autore di canzoni?

In ordine di importanza: i concerti, le vendite discografiche (compresi lo streaming su piattaforme come YouTube, Spotify e il downloading), i passaggi radio e, in misura molto minore, piazzare la propria musica in spot pubblicitari e sincronizzazioni cinematografiche.

Quanto fa comodo a voi editori della musica il fatto che il mondo dei diritti d’autore sia un ginepraio di cui quasi tutti non capiscono e non sanno nulla?

Guardi che questa cosa ci porta soprattutto svantaggi. Noi vorremmo chiarezza. E il primo punto sarebbe far capire a tutti che la musica deve essere remunerata per continuare a vivere. Quella sulla musica non è una «tassa» e non tutti nella musica sono ricchi, come credono molti. Senza i proventi dei diritti d’autore gli autori non riescono a sopravvivere, e quindi muore la creatività.

Però voi editori e la Siae - la Società Italiana Autori ed Editori – fate ben poco per comunicare con chiarezza con le persone.
Ha ragione. E questa è una gravissima colpa.

Se dipendesse da lei, da dove partirebbe?

Da una provocazione: facciamo una Giornata dove per 24 ore vietiamo a chiunque di trasmettere musica. Io credo che 24 ore di silenzio farebbero capire a tutti il valore che ha la musica nelle nostre vite.

E la Siae? Da fuori sembra solo un carrozzone che difende gli autori più ricchi e snobba quelli poveri.

Per anni la Siae è stata impegnata a sopravvivere e a lottare contro la rivoluzione tecnologica. E non l’ha fatto sempre bene. Dal 2010-2011 sicuramente ha cambiato passo.

C’entra qualcosa l’inchiesta di «Report» sulla Siae che ha smascherato una serie di orrori?

Quell’inchiesta è stata uno spartiacque. Da allora la Siae ha lavorato per cambiare. Ed eliminare certe storture.

Quell’inchiesta denunciò che l’autore della sigla di «Onda verde», il programma di RadioRai sul traffico, guadagnava più diritti d’autore del catalogo dei Beatles.

È vero, ma posso dirle che non è più così. Certe storture non esistono più. Le abbiamo tolte.

Ma perché non l’avete spiegato ai cittadini?

Perché se si deve rimettere mano ad una casa pericolante prima si restaurano le fondamenta e solo dopo la facciata, anche se è quella che si vede dall’esterno. Oggi Siae è più semplice e più trasparente. Si sta rinnovando anche verso il mercato: ha capito che non può trattare gli utilizzatori come fossero dei furfanti.

Lei parla di trasparenza, ma sapere, per esempio, quali opere (teatrali, musicali o televisive) guadagnano di più in Italia coi diritti d’autore è ancora impossibile. Perché?
Cambiare non è facile e serve tempo per farlo. Siae in passato ha lavorato troppo poco nella comunicazione, nella trasparenza e nella linearità. Oggi è cambiato molto, ma è difficile far arrivare certi cambiamenti anche agli associati. Alle ultime elezioni su oltre 80mila iscritti hanno votato poco più di 4 mila persone.

Scusi se insisto: perché è così difficile sapere quali opere (teatrali, musicali o televisive) guadagnano di più in Italia coi diritti d’autore?
Siae non può dire quanto ha ripartito ai singoli soci. Quello che facciamo è dare numeri sugli incassi dei film e dei concerti.

Mettiamola così: se io e lei fossimo proprietari del brano «Romagna mia» che viene suonato ogni sera da decine e decine di orchestre in decine di balere, saremmo ricchi?

Magari meno di qualche anno fa, ma riusciremmo ad arrivare molto tranquilli fino alla fine del mese.

In questo momento in Italia sulla ricca «torta» dei diritti d’autore della musica è in atto una guerra tra Siae e la società privata Soundreef. Come la spiegherebbe a suo figlio?
Per essere forti gli autori hanno bisogno di una società di collecting che li rappresenti tutti...

Guardi che se inizia così, suo figlio scappa per andare a giocare. Ci provo io: c’è una sfida tra un soggetto pubblico che punta, o almeno dovrebbe puntare al bene comune e uno nuovo che punta soprattutto ai soldi.

In più Siae, che è un ente pubblico economico, non ha scopo di lucro: per statuto deve andare a pareggio. Mentre Soundreef è una società a scopo di lucro, senza una base associativa e senza una presenza sul territorio.

Mettendo sotto contratto star come Fedez
, Gigi D’alessio e Rovazzi vi ha lanciato una bella sfida. Avete paura?

Alla Siae non so. A me personalmente non fa alcuna paura.

La Siae va verso nuove elezioni? Lei è in campagna elettorale? Le piacerebbe essere il prossimo presidente?

No. E credo che la Presidenza di Siae debba essere riservata ad un grande autore che abbia un profilo di rappresentatività di tutto l’organo associativo. Gino Paoli, per esempio...

Visto com’è finita, con Paoli che si è dimesso perché indagato per presunta evasione fiscale, forse non è andata benissimo.

Però aveva un profilo perfetto.

Il gruppo editoriale Warner fino a poco tempo fa era proprietario della canzone «Tanti auguri a te». Da quando è diventata di dominio pubblico, avete guadagni mancati per 14 milioni di euro all’anno. Quando la cantano al compleanno di suo figlio, si sente male?

No, perché in Italia non è mai stata nostra. È un’acquisizione fatta in America agli inizi degli anni Novanta dal gruppo Time Warner. Ma non ci ha toccato, nel bene come nel male.

Il gruppo Warner, per il quale lavora, è stata la prima casa discografica nel 2007 a diventare socia di ViaGogo, che è un’enorme società di secondary ticketing (lucra cioè sulla rivendita di biglietti di eventi musicali e non), mentre in Italia è socia dell’organizzazione di concerti Friends & Partner che (dopo Barley e dopo la denuncia delle Iene) si è scagliata contro questo fenomeno. Come fate a stare al tempo stesso con i buoni e con i cattivi?

Faccio fatica a rispondere. Non so e non ho responsabilità sull’accordo del 2007 ne sull’accordo con Friends & Partner, che pure ritengo di grandissimo profilo per il gruppo. Detto questo: il problema del secondary ticketing è palesemente dannoso sia per gli acquirenti dei biglietti sia per il fatto che evade il diritto d’autore. Se non si può estirpare, deve essere almeno regolato dal punta di vista fiscale.

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