mercoledì 26 aprile 2017
Ma il 64% ritiene il rischio di fallire troppo elevato. Soltanto un terzo pensa che lo Stato sostenga attivamente le nuove start up e che il Paese sia adatto per fare nuova impresa
Gli italiani sognano di diventare imprenditori
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Gli italiani sognano di mettersi in proprio e diventare imprenditori, ma sono frenati dalla paura di fallire, dall'assenza di sicurezza garantita dal lavoro dipendente e dalla percezione di un sistema Paese che ostacola il fare impresa. Il 64% dei lavoratori dipendenti, infatti, vorrebbe avviare una propria attività ma rinuncia perché considera il rischio di fallire troppo elevato. E due terzi ritengono l’Italia non sia un luogo adatto a lanciare una start up e che lo Stato non le sostenga attivamente. È un clima di generale sfiducia attorno alle opportunità del lavoro autonomo quello che emerge in Italia dall’Entrepreneurship Outlook 2017 del Randstad Workmonitor, l’indagine trimestrale sul mondo del lavoro di Randstad, secondo operatore mondiale nei servizi per le risorse umane, condotta in 33 Paesi del mondo su un campione di 400 lavoratori dipendenti per ogni nazione di età compresa fra 18 e 67 anni.

«Gli italiani hanno da sempre una vocazione imprenditoriale, ma la percezione comune è che il rischio di
impresa oggi sia un’avventura solitaria in un quadro ambientale avverso – commenta Marco Ceresa,
amministratore delegato di Randstad Italia –. Dai risultati della ricerca, infatti, emerge come i lavoratori
dipendenti non si sentano incoraggiati a mettersi in proprio, percependo incertezza, mancanza di
sostegno, difficoltà a misurarsi con la globalizzazione se le dimensioni di impresa sono limitate. È
necessario invertire rapidamente questa percezione, perché solo la nascita di startup e nuove imprese
possono quel dinamismo all'economia e al mercato del lavoro necessarie per sostenere la ripresa.
All'Italia le idee imprenditoriali e la capacità di innovazione non mancano. Servono incentivi fiscali per
l'apertura di startup, semplificazione burocratica, più in generale una cultura 'amica' dell'impresa che
infonda coraggio ai potenziali imprenditori».

Nel dettaglio, secondo i risultati della ricerca, ben il 64% dei lavoratori dipendenti italiani oggi aprirebbe una sua impresa, ma crede che sia troppo rischioso. Una percentuale superiore alla media globale (57%), che ci colloca al terzo posto in Europa tra i Paesi più timorosi, dopo Grecia e Spagna.

In generale, un italiano su due (il 49%) dichiara di aspirare a diventare imprenditore perché “questo gli
darebbe migliori opportunità” rispetto a quelle del posto di lavoro attuale. Ma sono pochi quelli che ci
stanno pensando seriamente. Infatti, soltanto il 31% dei dipendenti sta prendendo in considerazione
l’ipotesi di lasciare il proprio lavoro per lanciarsi in un'attività in proprio (contro la media globale del
28%). Un'ipotesi considerata più dagli uomini (33% contro il 28% delle donne) e dai giovani sotto i 45
anni (38% contro il 21% degli over 45). Il 52% dei lavoratori italiani avvierebbe una propria impresa
solo se perdesse il posto di lavoro (a livello globale il 47%), un'opinione trasversale per genere (54%
uomini e 51% donne) e fascia anagrafica (54% under 45 e 49% over 45).

Al di là delle differenze di età, genere e settore di provenienza, a scoraggiare maggiormente i potenziali imprenditori italiani è la percezione del contesto per la nuova attività. Due italiani su tre ritengono infatti che il sistema Paese in Italia sia più un ostacolo che un incentivo alla nuova impresa. In particolare, appena il 34% dei lavoratori Italiani è convinto che l’Italia sia un luogo adatto per avviare una startup, mentre a livello mondiale è il 56%. E soltanto il 32% crede che ilo Stato oggi sostenga attivamente le startup (nella media globale è il 50%).

La generale sfiducia nelle possibilità di successo si conferma anche nelle preferenze sulle dimensioni delle imprese in cui gli italiani vorrebbero lavorare (anche da dipendenti). Circa sei su dieci preferirebbero un’azienda multinazionale (60%, cinque punti in più della media globale) oppure una piccola o media azienda a gestione privata (62%, pari alla media globale), quasi allo stesso livello. Mentre solo il 48% (una quota significativamente inferiore, due punti in meno della media globale) vorrebbe lavorare per una startup, che non assicura la stessa stabilità.

Secondo l’89% degli italiani, senza differenze rilevanti di genere ed età, la globalizzazione è la principale causa della maggiore fragilità delle piccole imprese rispetto alle grandi. Uno scarto di ben 14 punti rispetto alla media globale (75% del campione). In Europa, dove la media è pari al 74%, è evidente la spaccatura fra i Paesi del Nord, che hanno una percezione del fenomeno più positiva, e le nazioni del Sud, dove il timore degli effetti della globalizzazione è decisamente più marcato.

Intanto nel primo trimestre 2017, rispetto al precedente, la mobilità dei lavoratori è cresciuta di due punti a livello globale, passando da 108 a 110 punti. Il mercato italiano, invece, si conferma più rigido della media, con un peggioramento di due punti che porta l’indice di mobilità da 103 a 101.

Il 79% dei lavoratori italiani non ha cambiato né mansione né datore di lavoro negli ultimi sei mesi, il 13% dei dipendenti ha cambiato soltanto azienda, un altro 6% ha cambiato ruolo all’interno della stessa società, solo il 2% ha cambiato sia l’impresa che la posizione ricoperta.

Soltanto il 4% degli italiani sta attivamente cercando un altro lavoro, il 7% sta selezionando nuove opportunità, il 24% non si sta impegnando attivamente nella ricerca, ma se capitasse un’occasione sarebbe aperto ad ogni possibilità, il 26% si sta guardando attorno ma senza particolari impegno e aspettative, mentre ben il 39% dichiara di non cercare lavoro.

Infine, pur occupando stabilmente la seconda metà della classifica, nel complesso gli italiani sono contenti della loro situazione occupazionale: il 66% è soddisfatto, il 25% non esprime un giudizio né positivo né negativo, mentre solo il 9% è insoddisfatto del proprio lavoro.

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