domenica 15 gennaio 2017
L'obiettivo di sviluppo sostenibile numero 9 ha al centro l'industria, l'innovazione e le infrastrutture. Il successo del programma di Unido e Cooperazione italiana in Etiopia.
Così l'Italia aiuta gli artigiani delle concerie etiopi
COMMENTA E CONDIVIDI

Il nono degli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite è «costruire un’infrastruttura resiliente e promuovere l’innovazione e una industrializzazione equa, responsabile e sostenibile». È un obiettivo piuttosto variegato. Da un lato c’è lo sviluppo delle infrastrutture: quelle per il trasporto delle persone e delle merci, quelle per la distribuzione dell’acqua e dell’energia elettrica, quelle per le telecomunicazioni. Tutti strumenti fondamentali per permettere lo sviluppo economico e sociale di una comunità. Sono questioni superate per i paesi ricchi, ma non per quelli più poveri. Tanto che, come abbiamo ricordato trattando altri obiettivi dell’Onu, nel mondo 2,6 miliardi di persone sono quasi prive di energia elettrica, 800 milioni di persone non hanno accesso diretto all’acqua potabile e circa 1 miliardo di persone non ha a disposizione tecnologie telefoniche affidabili.

Dall’altro lato l’obiettivo 9 riguarda lo sviluppo dell’industria in chiave di sostenibilità e innovazione. L’industria manifatturiera, in questo senso, ha un ruolo chiave, dal momento che con oltre mezzo miliardo di occupati rappresenta il 16% della forza lavoro mondiale. È evidentemente un obiettivo che va verso il contrasto alla povertà, numero uno tra gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu. Le stime delle Nazioni Unite dicono che ad ogni posto di lavoro creato nel settore manifatturiero corrispondono 2,2 nuovi lavoratori in altri settori. Nel progetto dell’Onu il punto di partenza per la crescita industriale dei paesi devono essere le piccole e medie imprese: il loro sviluppo è straordinariamente efficace nella creazione rapida di nuovi posti di lavoro. Un ruolo centrale in questa direzione spetta all’Unido, l’organizzazione per lo sviluppo industriale creata all’interno dell’Onu cinquanta anni fa che nel 2015 ha approvato l’Agenda di Addis Abeba, focalizzata proprio all’implementazione industriale degli obiettivi di sostenibilità dell’Onu.


Con una crescita media del Prodotto interno lordo superiore al 10% nell’ultimo decennio (meglio anche di Cina e India) l’Etiopia è uno dei più impressionanti casi di successo di sviluppo economico a livello mondiale. Nonostante questa galoppata del Pil, trainata da un efficace progetto di massicci investimenti pubblici per la costruzione di infrastrutture e miglioramento del settore agricolo, il paese resta uno dei più poveri del mondo: è solo 174esimo su 188 nazioni nella classifica dello sviluppo umano delle Nazioni Unite, che tiene conto di indicatori economici e sociali. Nella strategia del governo sostenuto dal Fronte rivoluzionario del popolo etiope — partito espressione della minoranza tigrina ormai al potere da un quarto di secolo ma ora in difficoltà per la protesta delle popolazioni oromo e amhara — il prossimo passo per migliorare le condizioni di vita dei 100 milioni di cittadini etiopi deve essere lo sviluppo dell’industria.

L’Italia, che si lasciata alle spalle l’ormai lontano lustro coloniale del 1936-1941, da tempo sta dando una mano in questa direzione. Dei 99 milioni di euro stanziati dal governo italiano per l’Etiopia con il “Programma Paese 2013-2015” quasi la metà sono stati destinati allo sviluppo del settore privato, area di intervento strategica assieme a quelle della sanità e dell’educazione. In particolare dal 2002 la Cooperazione italiana, all’interno del ministero degli Esteri, sostiene diversi progetti tra cui uno volto al miglioramento dell’industria del pellame etiope, un settore ad altissimo potenziale in un paese che è il principale produttore di bestiame dell’Africa e il nono al mondo e da cui le aziende italiane nel 2015 hanno importato pellame e abbigliamento in pelle lavorato per 14 milioni di euro. Un caso di successo, nel’ambito di questa strategia italiana per l’Etiopia, è il progetto finanziato dall’Italia e realizzato insieme all’Unido (l’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo Sviluppo industriale) per aiutare gli artigiani conciari etiopi, oltre 4mila piccole e piccolissime imprese che da decenni costruiscono scarpe, borse, portafogli, cinture e altri articoli in pelle ma che lavorando in autonomia e senza il supporto del governo non hanno fatto progressi dal punto di vista delle abilità e delle tecnologie e per questo sono rimasti eslcusi dai benefici di un’economia di scala di cui invece possono approfittare circa una ventina di imprese più grandi, moderne e meccanizzate. Uno spreco enorme, considerato anche che in questo settore il costo della materia prima vale circa il 55-60% del valore del prodotto finale e che quindi un paese dove i redditi sono bassi è c’è tanto pellame a disposizione ha grandi vantaggi competitivi a livello globale.


Il progetto dell’Unido, avviato nel 2014, è partito individuando tre distretti del pellame (tecnicamente cluster) nella città di Addis Abeba: uno nel sobborgo di Yeka, uno in quello di Kirkos e un altro nel grande Merkato dove lavorano 13mila persone. Assieme alle istituzioni governative e locali, ai centri di formazione e agli artigiani coinvolti ha disegnato un percorso condiviso di sviluppo. Alle 377 imprese che hanno fatto parte del progetto e ai loro 4mila lavoratori è stato prima di tutto insegnato a fare rete: le micro-aziende di ogni distretto hanno iniziato a mettersi assieme in alcune attività dove le dimensioni contano, come l’acquisto dei materiali, la lavorazione e il marketing. La qualità dei prodotti e l’affidabilità delle imprese per quanto riguarda i tempi di consegna sono migliorati in maniera significativa. Con la guida dell’Unido e il supporto supporto dell’Istituto di sviluppo dell’industria conciaria di Addis Abeba (Lidi) ingegneri informatici locali hanno poi elaborato un software per la verifica in tempo reale dei processi produttivi capace di aumentare la produttività. Mentre al governo, su sua richiesta, è stato proposto un progetto di riqualificazione dei quartieri e delle zone industriali per facilitare l’attività degli imprese. Gli artigiani sono stati coinvolti in progetti formativi (compresa una visita ai distretti conciari di Santa Croce sull’Arno e Vigevano) che gli hanno permesso di migliorare le tecniche e a pensare prodotti più adatti alle richieste del mercato. Alla collaborazione all’interno dei singoli distretti si è poi aggiunta quella tra un distretto e l’altro, con lo sviluppo di nuovi canali di fornitura e acquisto che hanno ridotto ulteriormente i prezzi dei prodotti.

I risultati sono stati sorprendenti. In tre anni le imprese coinvolte hanno creato 539 nuovi posti di lavoro con un aumento dell’occupazione di oltre il 30% in due dei tre distretti. La produzione di scarpe è cresciuta nell’ordine del 30%, quella di borsette del 60%, quella di cinture è decuplicata e quella di portafogli è addirittura cresciuta di venti volte. Parallelamente è aumentato anche il giro d’affari delle imprese e naturalmente la loro capacità di creare ricchezza sul territorio. Il progetto è pronto per un passaggio successivo. Laura Frigenti,direttore per l’Agenzia per la Cooperazione, lo scorso ottobre ha visitato i distretti della pelle di Addis Abeba e a novembre l’ambasciatore italiano Giuseppe Mistretta ha firmato per conto del governo l’accordo con l’Unido per finanziare la seconda parte del progetto con un contributo di 2,8 milioni di euro. L’obiettivo è continuare a sostenere gli artigiani puntando in particolare sul supporto all’imprenditoria femminile.


© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI