giovedì 7 marzo 2013
​La innovazioni apportate dal ministro Fornero al processo del lavoro non hanno fatto registrare grandi miglioramenti se non un aumento dei tentativi di accordo preventivo
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Giudizio sospeso, ma scarso ottimismo. È questo il sentimento che prevale tra gli osservatori in merito all’impatto della riforma Fornero sul processo del lavoro. A poco più di sette mesi dall’approvazione della legge che dovrebbe rendere più snello il contenzioso, più certo il giudizio e più rapidi i tempi per arrivare a sentenza, le perplessità rimangono intatte, anche se è ancora presto per avere un quadro definito. Questione di giurisprudenza, ancora insufficiente. Tra i punti forti della riforma, quello che raccoglie più consensi (o meno critiche) è la conciliazione obbligatoria, che impone alle aziende che intendono licenziare un lavoratore per giustificato motivo oggettivo (ad esempio perché il posto di lavoro è stato soppresso per ragioni economiche o organizzative) di tentare di trovare un accordo presso la Direzione territoriale del lavoro. «Questo rito sta funzionando abbastanza bene – osserva Francesco Rotondi, avvocato, socio fondatore e partner dello studio legale Lablaw –. Le Direzioni territoriali del lavoro stanno lavorando con grande attenzione e in molti casi le parti sono riuscite ad arrivare ad una soluzione consensuale, o tramite il reintegro del lavoratore in azienda, con ruoli e mansioni diverse; o, più spesso, con una transazione economica. È stata una sorpresa positiva, non si dava molto credito a questo strumento che invece si sta rivelando efficace».Il tentativo di conciliazione è preventivo al licenziamento (un’inversione di prospettiva rispetto al passato). «La percezione – nota Carlo Russo, responsabile dell’Ufficio vertenze della Cisl di Milano – è che vi sia un vero boom dei tentativi di conciliazione. A Milano, stando ai nostri dati, nei primi sei mesi di attuazione della riforma, la Direzione territoriale del lavoro ha trattato circa 1.200 casi, in larghissima parte, almeno l’80%, conclusisi con la risoluzione del rapporto e un indennizzo economico. Questi numeri, però, ci dicono che se l’obiettivo della legge era di aumentare l’occupazione, rendendo meno rigida l’uscita del mercato, allora non ci siamo. Le aziende continuano a licenziare. Diciamo che la riforma ha monetizzato il diritto al reintegro. In quanto alla lentezza dei processi, la questione è più ampia e riguarda tutta la giustizia. È anche un problema di risorse, organici e organizzazione».Dal sindacato, alle imprese i dubbi restano, anche se per ragioni diverse. «La sensazione complessiva – evidenzia Paolo Iacci, vicepresidente di Aidp, l’associazione dei direttori del personale – è che sia cambiato poco o niente. C’è una spinta verso la conciliazione, e questo è un fatto sicuramente positivo, ma in qualche modo era così anche prima. Il problema, che la riforma non ha risolto, è che continua a non esserci la certezza del diritto. Che non significa più libertà di licenziamento, ma una maggiore consapevolezza dei limiti entro i quali ci si può muovere. La legge rimette molto nelle mani dei giudici. Le prime sentenze sono contraddittorie ed è quindi necessario attendere una giurisprudenza più corposa per esprimere un parere».Uno dei nodi della giustizia in Italia (non solo del lavoro) è quello dei tempi. I processi durano troppo e ciò pregiudica anche la certezza del diritto. È accettabile che un lavoratore o un’azienda debbano aspettare 7-8 anni (in certi Tribunali i tempi sono questi) per sapere chi ha ragione? Ovviamente no. Per risolvere questo problema la riforma ha introdotto il rito veloce, dedicato in particolare ad affrontare le controversie che riguardano l’articolo 18. «Questo rito – commenta ancora l’avvocato Rotondi – ha determinato una contrazione netta dei tempi di difesa delle aziende, creando una situazione disomogenea e inspiegabile. Inoltre si è posta nelle mani dei giudici la possibilità di utilizzarlo in maniera più ampliata rispetto alle materie trattabili, ovvero la legittimità o illegittimità del licenziamento in base all’articolo 18. E questo finisce e finirà per allungare i tempi del giudizio invece di accelerarli. La riforma poi non affronta il problema vero, quello della certezza del diritto, che non si risolve con una norma. Bisogna cominciare a mettere dei paletti, introducendo il cosiddetto principio vincolante, come nel sistema anglosassone. Deve essere la Corte di Cassazione a "dettare" i comportamenti per i primi due gradi di giudizio».Ad esempio, non può più accadere che per un giudice il furto da parte di un dipendente sia motivo di licenziamento e per un altro non lo sia. La certezza del diritto è un aspetto fondamentale anche per le imprese. «La premessa della riforma – aggiunge Iacci – era che si facessero delle norme traducibili facilmente in inglese: l’investitore straniero deve e vuole avere certezza delle regole sui rapporti di lavoro. Oggi la traduzione della disciplina sui licenziamenti è più difficile di prima. Ma le difficoltà non riguardano solo il mercato del lavoro in uscita: in questo momento abbiamo un enorme problema in entrata. In Italia sta esplodendo il sommerso. L’occupazione irregolare è una piaga sociale ed economica e non ne parla nessuno». La situazione è difficile. Complice anche la crisi, il contenzioso sul lavoro è alto. Secondo L’Istat, nel 2010, nei tribunali italiani si sono avviati 158mila nuovi procedimenti, mentre oltre 266mila sono pendenti in primo grado (che diventano quasi 900mila con le cause in materia di assistenza e previdenza). Di questi 266mila, quasi 165mila sono concentrati nelle aree del Sud. La regione più "litigiosa" è la Campania (51mila), seguita da Puglia (41mila), Lazio (40mila), Sicilia (32mila). Lombardia (14mila), Veneto (10mila), Piemonte (8mila), ovvero le regioni più industrializzate del Paese, vengono dopo. Forse (visto che si tratta di cause pendenti) non è solo un problema di litigiosità ma anche di efficienza della giustizia.
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